STORIE I primi spettacoli di Rosa Balistreri nelle case e nelle taverne del paese di Sciascia. Riaffiorano ricordi e testimonianze di chi, tra i primi, ha apprezzato la sua voce intensa e drammatica. A Racalmuto dedicato un brano che negli anni Settanta ha fatto discutere. E a Licata, il 21 marzo, apre al pubblico la casa dove visse la cantautrice siciliana
Non ci sarà nulla da aggiungere a quanto in questi giorni ci verrà ricordato su Rosa Balistreri. Vedi il nutrito articolo pubblicato alcuni giorni fa su la Repubblica a firma del racalmutese Salvatore Picone.
Un intero paginone in cui Picone, attento conoscitore di “cose siciliane”, ci parla egregiamente di cosa si sta preparando a Licata, la città marinara che si appresta a riaprire, grazie al Centro Studi di Cultura Siciliana e Mediterranea, la casa in cui visse la combattiva cantante dalla voce vigorosa.
Ed è proprio il 21 marzo che si inaugura quella che si chiamerà proprio la “Casa di Rosa”. Post mortem, come la Balistreri aveva previsto, la città della Torre di Gaffe si appresta a chiudere definitivamente quel rapporto conflittuale fra l’artista e la “terra ca nun senti“.
Quindi la cantante, le cui spoglie posano nel cimitero di Trespiano, nell’hinterland fiorentino, che vive ancora fra noi con la sua voce straziante, torna a soggiornare nella memoria di quella che non è da ritenere più una città “matrigna”.
Personaggio favoloso dal canto strozzato, un film senza autore la definisce il poeta dialettale Ignazio Buttitta.
Molto si conosce della sua dura esistenza in vita, comunque l’attualità della notizia ci invoglia a raschiare ancora nella sua storia.
Riaffiora dal suo passato travagliato un bel ricordo fatto di incontri e concerti che lei stessa definisce comizi, occasioni per denunciare con la chitarra il malcontento popolare.
Notizia nella notizia, come scrive Salvatore Picone nel suo pezzo, nella vita della cantante emerge un certo legame con il paese di Racalmuto. Un affetto che manifesta in varie occasioni, in particolare nell’ intervista contenuta in un documentario custodito nelle teche Rai Storia.
Il filmato lascia sorpresi nel momento in cui alla domanda: Rosa tu sei nata a? La cantante tutto ad un fiato risponde: “Sono nata a Licata, in provincia di Agrigento. Licata è a quarantadue chilometri da Agrigento, dove è nato Pirandello. Vicinu Agrigentu, a venti chilometri, c’è Racalmutu unni ju fici nnà festa e lu populu era tuttu felici“.
A questo punto scatta come un alert, si accende una lampadina, la risposta data da Rosa ci obbliga a capire come mai la cantastorie accosta ad una domanda così intima il paese di Racalmuto.
Perchè interiorizza questo luogo nella storia della sua identità collegandolo alle sue origini?
La pista è data da quel filo rosso che conduce ad una certa aria di sinistra in cui Rosa orbitava politicamente, tra la Bagheria del pittore Guttuso e del poeta Buttitta, fino ad arrivare all’amico dei due, lo scrittore Leonardo Sciascia.
Al contrario di come si possa pensare il legame fra Rosa e Racalmuto non nasce comunque per il tramite di Sciascia. Rosa arriva per caso a Regalpetra grazie ad una mezza marachella compiuta da due giovani amici, compagni di partito, iscritti alla Federazione comunista.
Poco più che ventenni, Angelo Capodicasa e Federico Martorana approfittano dell’assenza dei genitori di quest’ultimo e si offrono di ospitarla a Racalmuto. La cantastorie accetta e resta per un mese in paese, in via Teatro Vecchio, nella residenza degli ignari coniugi Martorana, in quei giorni in Calabria per un viaggio di piacere.
Così tutte le sere la licatese cucina e duetta con il cantastorie Ciccio Busacca, anche lui in casa dell’ospitale Martorana. La cantante che non aveva un rapporto idilliaco con la sua città, a Racalmuto incontra l’affetto di parte contadini e minatori che l’ascoltano e apprezzano nel 1970 presso la taverna di vino di un tal detto “Mangiacosi”.
Successivamente, nel 1975, per la festa dell’Unità, un tripudio di folla l’applaude in un concerto in piazza. In quegli anni le capitò tante altre volte di pernottare a Racalmuto, ospite di Eugenio Napoleone Messana, zio del giovane Federico, intellettuale del luogo con il quale nel frattempo era nata una bella amicizia.
Durante quegli anni qualcosa ha certamente segnato Rosa, la sua partecipazione alla Festa dell’Unità di Racalmuto è un successo. Giornata rimasta memorabile anche per la reazione dell’arciprete del paese, il quale risentito per i testi caustici di Rosa, canzoni che mettono alla gogna preti e suore, pretende le scuse dall’anticlericale giovane Federico.
“Sintiti chi successi a Racalmutu, truvarunu ‘u tabbutu scrupirchiatu. Zum zum. Aiutu, aiutu lu munnu è pirdutu. Li monaci si vonnu maritari e la badessa sona lu liuto…”
È il periodo in cui lo scrittore Leonardo Sciascia, nel libro Todo modo, molto meglio tratta il tema cantato da Rosa in “Mafia e parrini si dettiru la manu“, pagine che danno la lettura della Storia italiana per tutti gli anni successivi.
A Racalmuto Rosa Balistreri canta assieme ai giovani del gruppo folkloristico “La virrinedda”, come ricordano in tanti, tra cui Pio Martorana e Lillo Sardo. Diciamo che la Balistreri in paese è ormai di casa. Qui attinge anche dei testi di canzoni tratte da una ricerca compiuta negli anni ’60. I brani sono raccolti in una Tesi di laurea sulle tradizioni popolari siciliane scritta dalla sorella di Federico Martorana, Isabella (poi pubblicata col titolo “Lu suli si nni va…”).
Così, in preda all’entusiasmo, i compagni Martorana e Capodicasa, che avevano trasformato la propria abitazione in una specie di ostello, organizzano per Rosa a licatisa diversi concerti in varie sagre e feste di città e paesi dell’agrigentino.
Tanti gli spettacoli in cui Rosa si esibisce con la sua voce intensa, non sempre apprezzata. Al contrario accade a Racalmuto, paese dell’amico Sciascia, in cui la cantante si sente invece capita e cullata. Coccolata come dalle dolci nenie che ama cantare per smorzare, di tanto in tanto, i suoi ruggiti. Sempre con le dure e vibranti corde di chitarra che lasciano morbidi e delicati suoni di carillon: “Vo la rivò, ora veni lu patri tò e ti porta la siminzina, la rosamaria e lu basilicò“.