Racalmuto, le recite del Mortorio che si facevano al teatro Regina Margherita sono ormai una leggenda.
“La scomparsa di Patò” è uno di quei libri di Camilleri che sta “dalle parti di Leonardo Sciascia”. Vale a dire che il racconto si snoda attraverso un filo conduttore che ci porta in qualche modo a casa dell’autore del Giorno della civetta, al teatro di Racalmuto, dove si conserva la foto dei primi del Novecento che ritrae la compagnia locale “La Filodrammatica”. E si perché anche se la storia raccontata da Andrea Camilleri è tutta inventata di sana pianta, come direbbe il Commissario Montalbano, il titolo del romanzo ci riporta ad un fatto realmente accaduto a Racalmuto e al detto popolare “Spirì comu a Patò ‘ni lu Mortoriu“.
È lo stesso Sciascia a parlarne, nelle ultime righe di “A ciascuno il suo”:… Cinquant’anni prima, durante le recite del Mortorio, cioè della Passione di Cristo secondo il cavalier D’Orioles, Antonio Patò, che faceva Giuda, era scomparso, per come la parte voleva, nella botola che puntualmente, come già un centinaio di volte tra prove e rappresentazioni, si aprì: solo che (e questo non era nella parte) da quel momento nessuno ne aveva saputo niente; e il fatto era passato in proverbio, a indicare misteriose scomparizioni di persone o di oggetti…”.
Ed ecco che Camilleri, prendendo spunto da queste poche righe di Sciascia, crea un romanzo affascinante e intrigante che vale la pena di leggere e rileggere.
Le recite del Mortorio che si facevano al teatro Regina Margherita di Racalmuto sono ormai una leggenda. Si facevano già nei primi del Novecento e quasi certamente, come ci ricorda Giovanni Di Falco nel suo libro sulla storia del teatro, l’attore Antonio Patò che faceva il Giuda sicuramente espatriò clandestinamente in cerca di lavoro all’estero.
Le rappresentazioni del Mortorio si fecero al teatro di Racalmuto fino al 1921. Poi qualche anno di fermo e poi la ripresa fino ai primi anni Cinquanta. Proprio nel 1950, una delle ultime edizioni, la rappresentazione fu organizzata dalla compagnia locale “Super Filo Gad” diretta da Giovanni Agrò. La regia era di Totò Falbo. Più di quaranta interpreti, tra protagonisti e comparse. In scena dalle 20 alle sei del mattino, sotto la direzione amministrativa di Eugenio Napoleone Messana.
I racalmutesi di quella generazione ricordano queste giornate con divertimento e malinconia: “Al Mortorio – racconta Calogero Messina che nel 1946 interpretò Cristo e nel ’50 Misandro – partecipava tutto il paese, restano memorabili quegli anni quando per un mese consecutivo si facevano le repliche”.
Durante le rappresentazioni gli attori si facevano scherzi tra loro. L’aceto al posto del vino e battute fuori copione. Poi il teatro chiuse. Il resto è storia assai nota.
Ma Sciascia non dimenticò quegli anni straordinari e nemmeno il Mortorio: “...alla sola luce di una lampada che pendeva dal centro del soffitto – scrisse nel 1979 – ho visto la rovina di quel luogo… volevo andare verso i camerini, ma c’era pericolo di finire là dove, nell’annuale rappresentazione del cavalier D’Orioles, finiva nell’ultima scena Giuda Iscariota: quando la botola si apriva ad inghiottirlo nella dannazione, nell’inferno”.
Nella dannazione e nell’inferno, dunque. Ovvero dalla parte degli infedeli. Ora non sappiamo che fine abbia fatto quel Patò scappando dal teatro durante la rappresentazione del Mortorio. Eppure quel suo gesto, divenuto proverbio ancora in uso a Racalmuto, e non solo nei casi di lupara bianca, è ormai letteratura, legato a quel teatro che ancor oggi racconta, tra fascino e mistero, della scomparsa di Patò.