“L’Intelligenza Artificiale rappresenta – e il verbo è sbagliato di sicuro – uomini senza corpo che vivono luoghi senza altrove in un presente senza passato”. Gente di Fotografia, N° 82, l’editoriale del direttore Franco Carlisi
Una menzogna ben raccontata può diventare una verità. Una vita immaginata può diventare una vita vera, senza esserlo realmente. La vita esiste anche attraverso il racconto che si fa di essa.
La mia storia personale – come quella di tanti – si nutre di parole scritte, di immagini, di musica, del suono del nome delle cose, delle persone, del borbottio di una caffettiera. Oppure. Del rumore che fa l’otturatore di una macchina fotografica quando si chiude e accende la nostalgia di un tempo appena perduto e già rimpianto. Per sempre.
La mia storia personale è la storia dei miei occhi, delle mie orecchie, delle mie mani, del mio corpo e della mia mente, insomma. Giacché tutto ciò che posso esperire – sensazioni, emozioni, sentimenti – passa attraverso il mio corpo. Il corpo che io sono.
Non importa che non sia tutto vero quello che raccontiamo, l’importante è che la storia riesca a tenere in piedi ricordi e speranze, che rievochi bellezza. Quella bellezza necessaria che almeno una volta abbiamo sentito dentro noi stessi.
Si fatica per anni a sciogliere i nodi, a cercare di aderire all’idea che abbiamo di noi stessi, quando, senza volerlo, d’un tratto ci ritroviamo perfettamente aderenti alla storia raccontata da un altro. E spesso per una forma di innocenza che ci fa procedere negli anni senza ascoltare i dubbi, la fiducia nelle storie raccontate dagli altri – rimasta immutata –, irretisce la vita in una credulità miope e ci disarma di fronte a sentimenti che nascono da promesse astratte e incorporee.
Viviamo dunque in bilico tra realtà e immaginazione. In assenza di un pensiero concreto che sia capace di separare il reale da quello che non lo è. Su questo crinale la verità appare come una secante che attraversa idealmente sia la realtà sia l’immaginazione restituendo se stessa come valore. Un valore a cui aderisco facilmente perché mi somiglia: è la sintesi del mio credo, dei miei desideri, delle mie nostalgie. Qualsiasi evento vissuto nella sfera della mia soggettività che io abbia ricostruito nella memoria diviene dunque, senza tante storie, per me, la verità.
Tuttavia, non bisogna affezionarsi alla verità, neanche alla propria perché la mente non è una macchina fotografica: è più simile all’intelligenza artificiale. L’IA riceve informazioni testuali e restituisce immagini perfettamente realistiche sebbene inesistenti, esattamente come spesso fa la nostra mente. Questa somiglianza tra la nostra mente e l’IA ci impone un’interrogazione: siamo il risultato di un costrutto? Le nostre stesse vite che cosa divengono se ne collezioniamo i pezzi fondamentali come immagini nella memoria? Immagini che non sono la traduzione pedissequa di un momento spazio-temporale, non aderiscono alla visione persa nel tempo, ma vengono ricostruite, trasfigurate, rappresentate per divenire memoria. La nostra mente funziona dunque come l’obiettivo immaginario di un’IA? O come un’ideale macchina fotografica in cerca di un referente dentro e fuori di noi? Ecco il punto. Una questione che ci riguarda fino in fondo. Fino in fondo alla nostra infanzia e al nostro presente, fino in fondo alla fotografia.
Negli ultimi decenni il percorso di tanti fotografi è stato quello di una progressiva rinuncia: da spiegazione del mondo secondo parametri condivisibili ad attestazione dell’impossibilità di raccontare compiutamente, di riconoscere il vero al di fuori della dimensione soggettiva.
La tecnologia ci cambia, modifica la percezione che abbiamo di noi stessi; ci obbliga, ancora una volta, a una profonda revisione dei concetti di immagine, di spazio, di rappresentazione e di memoria. Non è vero che le tecnologie siano degli strumenti neutri. Il loro uso provoca una dipendenza percettiva ed esistenziale. Provate a spegnere i cellulari, a spegnere il computer, a non usare gli apparecchi multimediali, la macchina fotografica, vi sembrerà di non poter più percepire il mondo per come quotidianamente lo percepiamo col nostro corpo. Per dirla con A.G. Biuso, siamo un ibrido tra organismo e apparecchi tecnici, a tal punto che senza la tecnologia che uso quotidianamente «improvvisamente, mi sento assottigliato, il mio corpo ha la sensazione di essere separato da qualcosa che ormai era parte di sé: era il mio corpo proprio anche se diffuso nello spazio»1. Siamo immersi in un mondo fatto di immagini in grado di confermare e di smentire qualsiasi cosa, vere e false insieme, pronte per la tessitura narrativa di ogni storia, per ogni cultura, per ogni finalità. Icone generate nel giro di un istante che possono esistere senza alcun fardello di tipo etico e morale nei confronti di una verità difficile da identificare. Mentre cambia il modo stesso di assegnare senso a quelle che crediamo siano le manifestazioni del reale.
Perché allora, insieme alla curiosità e al fascino che esercitano su di noi questi simulacri digitali di esseri umani che ci consegna l’IA, ne avvertiamo anche la distanza e la loro estraneità?
Al di là di tutte le serie implicazioni sociali e antropologiche, la loro vista ci mette inquietudine: «Fa paura ciò che destabilizza, che sottrae ogni cosa alla sua natura. Che cosa è ciò che destabilizza e dunque fa paura? Ciò che si mostra e si nasconde, cosicché ogni cosa nonostante la vicinanza rimane assente»2. Eppure, l’estetica delle immagini di sintesi è ampiamente riferibile alla messa in codice della fotografia. I mondi alternativi proposti finiscono inevitabilmente per fare riferimento al concetto di somiglianza. Queste immagini hanno bisogno di sembrare fotografie per essere accettate. Hanno bisogno di cadere all’interno del dominio dell’umana esperienza; cercano nell’estetica della fotografia, la loro legittimazione come, ai suoi albori, la fotografia l’ha cercata nella pittura. E comunque, superata la fascinazione iniziale legata alla precisione dell’immagine, guardandole ci sembra di aprire una finestra di contemplazione su una realtà muta e assente. La bellezza dell’immagine non ci consente di superare la sua condizione di separatezza dal mondo. Nonostante la loro capacità mimetica e forse anche per questo, non riusciamo a ricondurle al nostro vissuto. In altre parole, non riusciamo a compulsarle come una fotografia. Succede nella fotografia ma anche nel cinema che risulti spontaneo e naturale cercare una connessione con le vite di esseri umani che appaiono genuine anche se sappiamo non essere esenti da un alto tasso di affettazione. Questa connessione ci permette di vivere e far vivere le fotografie. Consente di accogliere un frammento della vita di un altro come fosse la nostra. Aiuta a dilatare il tempo, a espandere e allontanare l’orizzonte della nostra vita. Con le immagini generate dall’intelligenza artificiale questa connessione viene meno. Quando conosciamo la loro origine non riusciamo a proiettarci, a immedesimarci nei soggetti rappresentati. Nonostante la somiglianza, non riusciamo ad accoglierle nella nostra vita come invece facciamo naturalmente con il soggetto di una fotografia. Forse per una sorta di disagio che l’essere umano avverte nel rapportarsi con entità artificiali, che sembra crescere al crescere della loro verosimiglianza.
Con il varo nell’Unione Europea dell’AI ACT, i contenuti generati con l’intelligenza artificiale ma non segnalati come tali diventeranno illegali. Avremo quindi la certezza che ciò che vediamo non è stato. Nelle nuove immagini l’essere umano diventa, come ogni altro oggetto, qualcosa che può essere plasmato e generato tecnicamente: un simulacro, la figura di un corpo che non esiste. Sarà questo il motivo principale del nostro turbamento: la nostra resistenza a rinunciare alla corporeità e quindi a negare noi stessi.
L’Intelligenza Artificiale rappresenta – e il verbo è sbagliato di sicuro – uomini senza corpo che vivono luoghi senza altrove in un presente senza passato.
Certo per rapportarci con queste immagini abbiamo bisogno di una nuova grammatica, di una nuova metafisica per capire che cosa rappresentano per noi. Lo so, siamo agli inizi e so anche che un atteggiamento attento, di questi tempi, scatenerebbe accuse di cospirazionismo, di negazionismo, di complottismo e giù di lì fino al titolo di nemico del progresso. Allora mi guardo intorno e, con cautela, espongo il cartello: AAA cercasi fotografo, consapevolmente.
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1 A.G. Biuso, Cyborgsofia, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2004, p. 13.
2 M. Heidegger, «The Thing», in Poetry, Language, Thought, Harper and Row, London 1971, p.166.