Sono sparite e grazie a ciò le emozioni sono diventate il mezzo più potente e immediato per sfuggire a noi stessi.
La malinconia ci attende all’angolo prima che cominciamo a scrivere. Quando non ci riusciamo torna ad accompagnarci, se lo facciamo, torna ad aspettarci. È forse l’inevitabile portato della vita umana. Eppure ci ingegniamo a sfuggirla, cioè a sfuggire a noi stessi, cercando di evitare come la peste la sospensione del tempo e il vuoto dello spazio. Oggi è facile. Con un click si entra in un mondo, con un click se ne esce e si entra in un altro e così via. E così ci illudiamo di sfuggire da ciò di cui abbiamo veramente paura: il nostro Altro, quello che vede lo scandalo nell’ovvio e non chiude gli occhi di fronte alla quotidianità degli orrori del mondo e alle delusioni verso ciò in cui si credeva. Trovarcelo di fronte o avercelo intorno è un pericolo troppo grande, perché se e quando proviamo a guardarlo, temiamo che, incrociando il suo sguardo, ci scopriamo diversi da come ci illudevamo di essere. Accade così anche con ciò che scriviamo. Le parole si fissano sulla carta o sul file salvato. Diventano Altro. Narrando o argomentando cercano di imitare la vita, di duplicarla ma non ci riescono. Nascondono quel che non è stato scritto e sta tra le righe e allora, invece di cercare la profondità nella superficie, si cede alla tentazione di fuggire. Il mondo offre molte distrazioni e molte droghe e molti farmaci in grado di far desistere dal cercare il tuo Altro nel vuoto, nel silenzio oppure nelle parole scritte. E poi non c’è tempo. Qualche frase sui social solo per dare il senso che le parole sono emozioni e che la vita si riduce a queste.
Una volta esistevano le passioni, fatte sì di emozioni, ma differite nel tempo. Ma oggi? Sono sparite e grazie a ciò le emozioni sono diventate il mezzo più potente e immediato per sfuggire a noi stessi. Non c’è più posto per la malinconia, non c’è più tempo. Ci abituiamo a tutto. Addomestichiamo la diversità e il cambiamento, la libertà e l’autonomia, la solidarietà e il bene comune. Non li neghiamo, anzi ne facciamo una bandiera della democrazia, ma li addomestichiamo, in modo che, nell’alleviare la nostra coscienza, non diano fastidio e non siano realmente diversità e cambiamento, libertà e autonomia, solidarietà e bene comune. Ciò che una volta si chiamavano ipocrisia e opportunismo oggi è una quasi naturale condizione dell’essere adornata dalle differenze che si nutrono dell’omologazione.
Bisogna essere sempre euforici, gioiosi, perché, ci dicono, l’infelicità è una malattia che va tenuta lontana. I mezzi ci sono. I soldi, ma solo per chi ce li ha, pure. In un’epoca in cui non siamo più in grado di distinguere tra il normale e il patologico, e non sappiamo più bene dove stia la differenza tra una gioia sana e un piacere insano, tra la tristezza e la depressione, tra una sofferenza che ci fa crescere e un dolore che ci opprime, è ancora una volta il caso di tessere un elogio della malinconia. La malinconia ci fa sentire il vuoto, la mancanza, il limite, l’irreversibile, l’irraggiungibilità di una meta, l’infinito di un orizzonte. Abbatte il delirio di onnipotenza e ci fa capire che il tempo avanza e muta le cose e noi stessi. Ci accompagna verso l’ironia, mettendo in dubbio noi stessi. Ci fa volgere lo sguardo al passato con umiltà e commozione. Ci spinge verso un futuro che non c’è e potrebbe non esserci mai. Ci evita l’inganno di una falsa pienezza di vita quando invece cerchiamo soltanto di sfuggire a noi stessi. Deride la furbizia e la mette dove deve stare, negli anfratti dei servi. Ci dà una coscienza e una dignità.
Abbiamo così tanta paura della malinconia che la identifichiamo con una malattia, la depressione. Ma la malinconia non lo è. Neppure la tristezza lo è. Perché tendiamo a confonderle con la depressione? Perché attribuiamo a un atteggiamento sano il marchio della malattia? Lo smarrimento non si traduce necessariamente in ansia e in panico, e la sofferenza non è di per sé una malattia.
Non siamo più in grado di distinguere la malinconia e la tristezza dalla depressione. Non ci riusciamo più. Come ha osservato il biologo Steven Rose: “all’interno della nostra cultura e delle nostre società altamente individualistiche vi è una crescente tendenza a medicalizzare l’angoscia sociale e ad etichettare l’infelicità come uno stato patologico, da correggere mediante intervento medico che sia attraverso l’uso di farmaci o di altre forme di terapia”. Nella nostra epoca, domina la spinta a patologizzare il normale. Un tempo era la condizione patologica a dirci qualcosa della normalità. Una malattia funzionava da lente di ingrandimento per ciò che era sano. Salute e malattia, però, non sono entità distinte. Ogni malattia può essere una lente d’ingrandimento per capire in cosa consista lo stato di salute. Nell’ansia riconosci lo smarrimento, nella depressione la malinconia. Proprio per questo rapporto di parentela così stretto, il normale e il patologico possono confondersi e, nella confusione, può capitare che si attui la colonizzazione della salute da parte della malattia.
Il grande fisiologo del XIX secolo Claude Bernard aveva scritto: «La salute e la malattia non sono due modelli differenti per essenza, come hanno creduto gli scienziati dell’antichità e come crede ancora qualche medico. Non bisogna farne due principi distinti, due entità che si disputano l’organismo vivente rendendolo teatro delle loro lotte. Questo è antiquariato medico. In realtà, tra questi due modi d’essere non vi sono che differenze di grado: sono l’esagerazione, la sproporzione, la disarmonia dei fenomeni naturali a costituire lo stato morboso. Non si dà un caso in cui la malattia abbia fatto comparire condizioni nuove, un cambio completo di scena, prodotti nuovi e speciali». E Nietzsche, sottoscrivendo queste considerazioni di Bernard, osserva: «Il valore di tutti gli stati morbosi è questo, che mostrano in una lente di ingrandimento certi stati che sono normali, ma difficilmente visibili proprio perché normali». Così difficilmente visibili che, oggi, sono sempre più indistinti e indistinguibili.
Perché stiamo estendendo quasi senza confini la medicalizzazione dei nostri sentimenti e le nostre passioni? Di cosa abbiamo paura? Cosa ci aspettiamo dalla medicina, quando soffriamo di un abbandono? Certo, il dolore può essere fortissimo, a momenti insopportabile ed è comprensibile che si cerchino tutti i modi per alleviarlo, pillole, psicofarmaci, dialogo con gli amici, affetto. Chiunque sia stato attraversato dalla tempesta devastante dell’abbandono, sa che si prova la sensazione di non poterne uscire, di essere in un cul di sacco. L’uscita da quello stato di minorità che Kant identificava con l’illuminismo e con l’autonomia deve fare i conti con il lutto dell’abbandono, ma se lo smarrimento e la sofferenza che si accompagnano all’abbandono sono diagnosticati come malattia e vengono sottoposti a terapia intensiva, il paziente, salvandosi dallo smarrimento e dalla sofferenza, perde paradossalmente quel valore da tutti dichiarato decisivo: l’autonomia.
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Prof. Alfonso Maurizio Iacono
Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere
Università di Pisa