Andrea Camilleri ricorda. Un’intervista allo scrittore empedoclino di Gaetano Savatteri, tratta dal libro fotografico di Angelo Pitrone Linea di terra-Viaggio in Sicilia per treni e stazioni, pubblicato nel 2005
C’è un treno nella vita di ogni siciliano. Un treno perduto. Un treno che ti porta lontano o ti fa tornare. E c’è un treno – l’immagine e il ritmo di un treno – perfino nell’epoca delle auto, degli autobus e degli aerei. A parlar di treni si finisce per parlare di stazioni: grandi e piccole, cittadine o di campagna. “Cominciarono a passare le stazioni, casotti di legno col sole sul cappello rosso di capistazione, e la selva si apriva, si stringeva, di fichidindia alti come forche”, scrive Elio Vittorini nel suo Conversazione in Sicilia. “Il treno attraversava un paesaggio fulminato di sole, deserto”, aggiunge Leonardo Sciascia nel suo Mare colore del vino.
In treno ancora oggi viaggia Andrea Camilleri nei suoi andirivieni tra Roma e la Sicilia: un po’ per timore di altri mezzi, un po’ per antica passione.
Andrea Camilleri, cominciamo questo nostro viaggio. Molta parte della letteratura siciliana è legata al treno, alle persone e ai silenzi di stazioni affollate o deserte. Perché?
Per lungo tempo il treno è stato l’unico mezzo di collegamento per noi siciliani. Le corriere sono successive. Ma all’inizio di tutto c’è il treno che innesca anche grandi battaglie sociali. Ad esempio, c’è una rivolta in Sicilia, durata a lungo e molto seria, che riguardava il potenziamento di una tratta ferroviaria che privilegiava Caltanissetta con Catania rispetto a Caltanissetta con Agrigento e quindi Porto Empedocle. Sarebbe inspiegabile, se dietro tutto quello non ci fosse la questione dello zolfo, cioè la possibilità di trasportare più velocemente lo zolfo delle miniere dell’interno verso le raffinerie di Catania piuttosto che verso quelle di Agrigento. Al solito, intervengono due o tre deputati con maggiore peso politico e questo provocò una rivolta con incendio di municipi e cose incredibili.
Insomma, il treno in Sicilia portava ricchezza o miseria e una linea posata in un posto piuttosto che in un altro scatenava battaglie?
Esatto. Un’altra cosa incredibile avvenne nel 1924. Mussolini arrivò a Catania e poi andò a Caltagirone e fu accolto dal fischio incessante dei pastori che protestavano per l’apertura di una nuova linea ferroviaria. Il fischio di un pastore è assordante, alcune decine di pastori che fischiano è qualcosa di cosmico. Perché? La linea ferroviaria in realtà devastava certi campi dove loro mandavano a pascolare le pecore e le capre. Tutto questo sembra proprio come nel film western, quando la linea arrivava e attraversava i campi del ricco proprietario che mandava i suoi uomini a combattere.
Tu sei sempre stato un viaggiatore ferroviario e lo sei ancora…
Da sempre. Quando ero giovane e avevo necessità di andare a Palermo, era il ’41 o il ’42, non c’era una corriera Agrigento-Palermo, c’era il treno. Io ogni quindici giorni, raccattando i soldi che mio padre mi dava, andavo alla libreria Flaccovio per vedere quali erano i libri pubblicati, le novità. Il viaggio durava quattro ore e mezzo. Prendevo una vettura di terza, arrivavo a Palermo, compravo i libri e durante il viaggio di ritorno li divoravo. Il treno faceva frequenti e lunghe soste in questa stazioni meravigliose: a un piano, basse, perse nelle campagne, me le ricordo tutte così. Stazioni che non si aprivano sul paese, ma su una strada di campagna dove, bene che andava, c’era una Pintaiota, una corriera, che aspettava per portare al paese che era a quattro chilometri, se andava bene, invece, te la facevi a piedi con la valigia sulla spalla. Ebbene, queste stazioni invitavano il treno a sostare. Era come se dicessero: non c’è nessuna necessità di andare avanti, puoi fermarli senza prescia anche dieci minuti in più.
Quanto racconti, per certi versi, accade ancora adesso?
Recentemente, prendendo ad Agrigento il treno per Palermo, mi dissero che era treno regionale e non si poteva fumare. Allora io, preavvertito, mi fumai cinque sigarette, mettendole anche nelle narici, prima di salire in vettura. Poco dopo, il conduttore del treno che mi aveva visto fare questa operazione, mi batté sulle spalle e mi disse: “Guardi siamo ad Aragona Caldare qui stiamo fermi dieci minuti, si può fumare tutte le sigarette che vuole”. Insomma, queste soste aiutavano ad affrontare il viaggio. Adesso è invalso l’uso dell’automobile, e vedo con tristezza che molte stazioni vanno in rovina.
Hai citato Aragona Caldare, stazione mitica per i viaggiatori agrigentini.
Già, ad Aragona si cambia. Perché la linea si divideva, in direzione di Palermo e di Catania.
E vicino c’era un altro paese, piccolissimo, addirittura con due due stazioni: Comitini e Comitini Zolfare.
Esatto, una sulla linea per Palermo e l’altra su quella per Caltanissetta. Ma queste stazioni sono chiuse. Eppure il treno vi passa ancora, perché non si ferma più? Perché le stazioni sono in abbandono? Mah, mistero. Anche Porto Empedocle aveva più stazioni: Porto Empedocle Centrale, Porto Empedocle Porto, dove si sganciavano i vagoni con le zolfo e poi Porto Empedocle Cannelle che era all’altra estremità del paese e da questa stazione partiva una linea adesso abolita.
Era a scartamento ridotto.
Sì, era la linea Porto Empedocle-Castelvetrano. Un treno mitico, mi devi credere. Un treno da film western. Le vetture erano molto piccole, ma tutte munite di verandina. Come nei tram di una volta, c’era una sorta di anticamera dove potevi stare. Quella zona era scoperta e c’erano le tendine. Non esisteva la seconda classe, c’era solo la prima e la terza classe. Alla stazione di Cannelle negli anni Quaranta c’era una scritta formidabile: ABBASSO GLI ARRIVISTI. E sotto una mano anonima aveva scritto: EVVIVA I PARTENTISTI. D’estate stavamo tutti sulla verandina e quando questo trenino ansimante cominciava a fare la salita, ma non ce la faceva, noi rapidissimamente ci spogliavamo e andavamo a fare il bagno alla Scala dei Turchi. Un tuffo, e poi riprendevamo il treno in corsa.
La definizione in corsa è un po’ esagerata.
In effetti è una parola esagerata, ma comunque riprendevamo il treno al volo. Nel frattempo ci eravamo asciugati durante la camminata per risalire a bordo. Questo trenino venne sostituito dalle cosiddette littorine, le automotrici costruite durante il fascismo. Le avevano ridotte di scartamento, ma per quanto andassero a velocità ridotta deragliavano. La cosa non aveva alcuna caratteristica di tragedia: c’era una curva che, sia pur affrontandola alla velocità minore, le littorine deragliavano adagiandosi dolcemente sul fianco della collina. E a quel punto si scendeva tutti e si aspettavano gli operai che l’avrebbero dovuta rimettere in piedi. Poi abolirono la linea e la sostituirono con volgarissimi autobus e corriere. Ma il ricordo di queste stazioni è meraviglioso.
Anche i nomi di alcune stazioni sono bellissimi: Acquaviva Platani, Fiumetorto…
E Caltanissetta Xirbi? E poi Roccapalumba, San Giovanni Gemini. Senti che suoni, che suggestioni. Con i nomi di queste stazioni si potrebbe comporre un poemetto.
Nonostante alcuni miglioramenti sulle linee, treni un po’ più efficienti, ma comunque ancora distanti dagli standard del resto d’Italia, ancora in Sicilia il viaggio è una cosa incerta. Può capitare che salendo su un treno e chiedendo se è diretto ad Agrigento o a Catania o a Palermo, si sentano risposte prudenti, caute, dubbiose: “Così dicono”. Oppure: “Dovrebbe”.
Questo però fa parte del carattere dei siciliani su cui tu hai scritto un bellissimo libro. Se c’è qualcosa di certo nelle comunicazione è il binario e il fatto che il treno non può lasciare il binario. Ma il siciliano mette in dubbio anche il fatto che il treno debba seguire il binario. Quindi: questo treno va Caltanissetta Xirbi? Forse. Su questo Sciascia ha scritto una pagina mirabile. Non si sa mai, forse la linea è stata cambiata, forse il treno potrebbe decidere di abbandonare il binario e andare altrove. Non è che del domani non vi è certezza, non vi è certezza nemmeno del secondo che segue al secondo in cui sto parlando. Figurati se possiamo fidarci di un treno.
Eppure questo viene vissuto con una certa rassegnazione. Recentemente un treno sul quale viaggiavo si fermò in un frinire di cicale…
Dici bene. Prima c’è il frinire delle cicale e poi emerge la stazione…
Appunto, si fermò in una di queste stazioni e alcuni, ma pochissimi, ci chiedevamo e ci interrogavamo per capire le ragioni della fermata. Ma la gran parte dei passeggeri continuava, con apparente indifferenza, a sbrigare le proprie cose – mangiava o leggeva o fumava, simile al piccolo siciliano di Vittorini che sbucciava e mangiava le sue arance – quasi con paziente rassegnazione.
Perché è importante il viaggio in sé. Non l’arrivo. Si arriva quando vuole Dio. L’importante è adattarsi al viaggio, reggerlo, reagire al viaggio. Perché il viaggio in sé è significativo. Il fatto che le stazioni siano un frinire di cicale non fa che avvalorare questa idea del viaggio. Perché nelle stazioni possono succedere cose straordinarie.
E’ vero. Ricordo una lunga sosta a una stazione, per un’avaria alla motrice, credo proprio a Comitini, in primavera, dove tutti ci sparpagliammo tra i campi di papaveri e la moglie del capostazione offrì acqua, vino e pane e tuma fresca a tutti i passeggeri del treno.
Ricordo una volta che arrivai a Palermo con il vagone-letto da Roma. Dovevo aspettare la coincidenza per Agrigento. Con la mia valigia andai al binario dove c’era il treno che sarebbe partito da lì a poco. Come sempre, i passeggeri arrivarono all’ultimo. Io stavo sulla banchina e tra la gente notai un gatto bianco e nero che si affrettava verso il treno. Io pensavo continuasse il suo cammino lungo la banchina, ma all’improvviso invece salì sul treno. Io, amante dei gatti, mi preoccupai, pensando a dove sarebbe finito. Si avvicinava il momento della partenza, c’era già il capostazione con la paletta, presi coraggio e mi avvicinai: “Senta su questo treno è salito un gatto”. Non batté ciglio. Mi disse: “Com’era?”. “Bianco e nero”. “Non si preoccupi, disse, scende a Termini Imprese”. Non è una balla. Durante la mezz’ora di viaggio tra Palermo e Termini cercai il gatto, ma non ve n’era traccia. Affacciato al finestrino, alla stazione di Termini Imerese, lo vidi scendere. Allora chiesi al controllore: “Ma c’era un gatto su questo treno, l’ha visto?”. “Non si preoccupi”, mi disse il controllore, “riprende stasera il treno delle otto per Palermo”. E io mi chiedo: ma cosa va a fare un gatto a Termini Imerese?
Forse una storia d’amore…
Forse. La trovo una storia fantastica, che secondo me può avvenire solo in Sicilia.
Abbiamo parlato di stazioni nel frinire di cicale. Ma ci sono altre stazioni che hanno un altro aspetto e restituiscono sensazioni diverse. Penso alle stazioni vicino alla costa, quando la linea lascia le campagne dell’interno e comincia a correre lungo il mare. Stazione marine che sembrano quasi balneari, come quella di Taormina, bellissima. Le stazioni che all’interno della Sicilia sembrano fatte di tufo, qui diventano bianche e colorate e spesso piene di fiori.
Chi ci abitava, credo il capostazione con la famiglia, personalizzava la stazione come la propria casa. C’erano stazioni particolarmente fiorite perché la moglie, la figlia o il capostazione stesso avevano il pollice verde. Ma perfino la gente che frequentava le stazioni della costa era diverse. Mentre nel centro della Sicilia vedevi gli uomini intabarrati, vicino al mare perfino i vestiti erano diversi. Queste stazioni erano ilari, divertenti, ingentilite, non avevano quella sorta di rustica bellezza che avevano le stazioni dell’interno dell’isola. Le stazioni dell’interno avevano al massimo un albero rinsecchito.
Ancor più desolato era il posto del casellante.
Quello è stato il sogno della mia vita: comprare la casa dismessa di un casellante. Se la stazione era il nulla nel frinire delle cicale cos’era la casa del casellante? Ancora di meno. O una cosa da spararsi o l’assoluta bellezza della solitudine, del silenzio.
Un specie di guardiano del faro.
Vedi, il guardano del faro ha una cosa positiva o negativa che è il rumore del mare. Ma il casellante nemmeno questo, c’era il rumore del treno che passava ad ore precise. Poi, il niente. Una bellezza straordinaria… Sono cose che stanno però andando allo sfacelo, le vedo semidistrutte, abbandonate, ma la linea ferroviaria continua a passare.
Al passaggio vicino al casello, da dietro il finestrino del treno, si riuscivano a intravedere la moglie del casellante che stendeva i panni, i bambini che giocavano, a certe ore del giorno si sentiva perfino l’odore della carne di castrato arrostita alla brace…
La velocità del treno ti permetteva di percepire perfino l’odore. Erano treni a passo d’uomo.
Adesso l’odore del viaggio si è perso.
Questo è un mondo che tende a fare scomparire l’odore di qualsiasi cosa. Scompare l’odore della donna, ad esempio, a forza di sapone e deodoranti. Una volta tu una ragazza la riconoscevi per il leggerissimo odore della sua personale pelle, ora è tutto uniformato. Per le donne così come per noi maschi. Una volta si diceva che Dio avrebbe riconosciuto i suoi a fiuto, oggi avrebbe difficoltà. Ma l’odore del viaggio era meraviglioso. Quando tornavo da Palermo mia madre mi diceva: “Cambiati che puzzi di carbone”. Ti dovevi lavare dopo un viaggio, perché il fumo e la polvere di carbone entravano dovunque. Mi ricordo che una volta andai a Palermo, al solito per comprare libri: presi Ossi di seppia di Montale, pubblicato da Einaudi, un volume che ancora conservo, con la pecetta Libreria Flaccovio 1942, e durante il viaggio di ritorno lessi la poesia Corno inglese che si chiude con questi versi: “il vento che nasce e muore/nell’ora che lenta s’annera/suonasse te pure stasera/scordato strumento,/cuore”. Mi ritrovai a piangere. E il contadino con la coppola, seduto di fronte a me, in dialetto mi chiese: “Ma che fai, piangi?” Gli dissi che mi era entrato un poco di carbone nell’occhio: un meraviglioso alibi per nascondere la commozione improvvisa della lettura della poesia.
I treni a carbone. Sembrano cose di un’altra epoca, e invece camminavano ancora fino a pochi decenni fa, almeno in Sicilia continuavano a circolare…
Ricordo un fatto. Colui che metteva il carbone con la pala dentro la bocca della caldaia, assai spesso vedeva che c’erano dei particolari pezzi di carbone che erano delle vere pietre e non avrebbero bruciato, ma fatto solo fumo. Così prendeva questi pezzi e li buttava fuori dal treno. Io non ho mai saputo come si chiamassero, né in siciliano né in italiano. Sapevo solo come li chiamavamo noi: cacazzi. Era un carbone con filature argentee. Bellissimo. Non bruciava né riscaldava, faceva solo fumo. Ma noi ragazzi andavamo a raccogliere i cacazzi lungo la linea ferroviaria. Li usavamo infatti per costruire il presepio a Natale. Così i presepi di Porto Empedocle erano tutti uguali, incorniciati da queste montagne nere con venature d’argento. Montagne di cacazzi.
Molti studenti, e forse anche tu, per andare a scuola usavano e usano il treno: il treno diventava così il luogo dove cominciava la giornata scolastica, dove si incrociavano i libri e gli scherzi.
Questi treni di studenti erano incredibili: succedeva di tutto. Nessuna persona sana di mente avrebbe scelto di salire su quei treni, sapendo che magari mezz’ora dopo ce n’erano altri molto meno affollati e più tranquilli. Forse non era un caso che su quei treni c’erano sempre i soliti controllori, perché per governare quegli studenti occorrevano persone di grande equilibrio, saggezza e autorevolezza che di volta in volta dovevano sedare risse, proteggere fanciulle, risolvere controversie amorose e tutto questo evitando il peggio. Ecco, bisogna rendere merito a questi ferrovieri che ogni giorno affrontavano una vera battaglia sui treni degli studenti.
Da ragazzo, invidiavo molto un mio compagno di scuola figlio di ferroviere, non solo perché viveva fra i treni – cosa che esercita sempre un certo fascino – ma perché poteva viaggiare gratis dappertutto.
Il figlio del ferroviere era l’amico o il compagno di scuola che ti portava le notizie dal mondo. Soprattutto se abitava in una stazione, raccoglieva le storie che raccontavano i viaggiatori. Ma i ferrovieri spesso venivano trasferiti e così questi ragazzi avevano conosciuto altri luoghi, potevano parlare di posti lontani. Ma erano anche gli amici che a volte perdevi, perché capitava che a metà dell’anno scolastico salutavano tutti e andavano via, verso un’altra destinazione.
Dal nostro estremo sud partivano anche i treni a lunga percorrenza. Quelli che, ancor prima della partenza, erano affollati di famiglie cariche di bambini che dormivano o mangiavano, perché avevano alle spalle ore di viaggio per arrivare dai loro paesi alle stazioni di Agrigento o di Palermo, dove prendevano il treno diretto in nord Italia o nel cuore dell’Europa.
Tiravano fuori dai sacchi pane di casa, vino, formaggio. Era sicuro che trovavi cose buone da mangiare, ma era altrettanto sicuro che non avresti trovato posto per la tua valigia, perché tutto era occupato dai loro bagagli. Erano quelli con le valigie di cartone. A Porto Empedocle le vendeva un negoziante: le chiamava valigie pane e lavoro, perché erano le valigie degli emigrati. Valigie gonfie di roba, che non riusciva a starci dentro e per questo veniva legate con lo spago. Alcuni addirittura riempivano i copriletto, li annodavano e ne facevano delle truscie enormi. Quando poi si attraversava lo Stretto, questa gente che pure aveva la sua roba da mangiare si precipitava sugli arancini del traghetto. Allora, tu che sapevi che saresti tornato in Sicilia, capivi che la mangiata degli arancini acquistava un valore di rito alla quale assistevi e non partecipavi perché assumeva il valore di un addio.
Torniamo alle nostre stazioni. Alle nostre stazioni a volte abbandonate: secondo te sono destinate irrimediabilmente a morire, cancellate dal tempo?
Io mi augurerei di no. Al mio paese, Porto Empedocle, c’era questa meravigliosa stazione di Cannelle. Era in uno stato disastroso. Il Comune l’ha rilevata e ci ha fatto la biblioteca comunale. E’ una delizia. Ecco, questo è un modo di fare rivivere queste stazioni, perché lasciarle in rovina è veramente un delitto.
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Da Linea di terra – Viaggio in Sicilia per treni e stazioni, libro fotografico di Angelo Pitrone (edizioni dipassaggio). Novembre 2005