Fondato a Racalmuto nel 1980

Il Dio degli ebrei, il Dio dei cristiani, il Dio dei mussulmani è lo stesso Dio?

La domanda, all’inizio del terzo millennio, è ancora valida e altrettanto dolorosa. Una riflessione del filosofo Alfonso Maurizio Iacono

Alfonso Maurizio Iacono

Il Dio degli ebrei, il Dio dei cristiani, il Dio dei mussulmani è lo stesso Dio? A dispetto degli uomini che lo negano, penso e temo di sì. E se lo è, perché fa morire bambini innocenti? Voltaire si pose questa domanda al tempo del terremoto di Lisbona del 1755 e poi, nel Candide, derise la Provvidenza. Si trattava di un terremoto. E le guerre? Fatte e volute dagli uomini? Bambini innocenti morirono ad Auschwitz, bambini innocenti sono morti a Gaza.

All’indomani della fine della seconda guerra mondiale, Mircea Eliade si interrogò sulla storia e su come poteva essere sopportata dagli uomini, dato il male che cospargeva senza che a ciò si potesse dare un senso: «si vorrebbe sapere, per esempio, come possono essere sopportati e giustificati, i dolori e la scomparsa di tanti popoli che soffrono e scompaiono per il semplice motivo che si trovano sul cammino della storia e perché sono vicini a imperi in stato di permanente espansione» (M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Borla, Roma 1968, pp. 190-191). La domanda, all’inizio del terzo millennio, è ancora valida e altrettanto dolorosa. Palestinesi, Curdi, Ceceni, – e l’elenco, passando per l’Africa e non solo, potrebbe allungarsi in modo spaventoso – hanno avuto la sfortuna di trovarsi nel mezzo di una storia dove questi popoli non hanno spazio fra gli altri e quel poco che rimane loro devono difenderlo in modo disperato. Nel secolo scorso accadde agli zingari e agli ebrei. Come poterono sopportare il male della storia? E come possono oggi?

Hans Jonas ha affermato che, dopo Auschwitz, il concetto di onnipotenza di Dio deve essere abbandonato. Dopo Auschwitz non è dall’onnipotenza di Dio che ci si può aspettare la possibilità della sopportazione della storia (H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova 1989. Ma cf. anche S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1992).

«Non vi è più posto, scrive Jonas, per fedeltà o infedeltà, fede o agnosticismo, colpa e pena, o per termini come testimonianza, prova, e speranza di salvezza e neppure per forza e debolezza, eroismo o viltà, resistenza o rassegnazione. Di tutto ciò non sapeva nulla Auschwitz che divorò bambini che non possedevano ancora l’uso della parola e ai quali questa opportunità non fu neppure concessa» (H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, tr.it., Il Melangolo, Genova 1993, pp. 21-22).

La tragedia della storia fa piazza pulita dei tradizionali presupposti teologici. Dopo Auschwitz, Dio, il Dio degli ebrei, non può essere ugualmente comprensibile, buono, onnipotente. Ed è l’onnipotenza che, secondo Jonas, scompare. Di fronte ad Auschwitz Dio restò muto: «non intervenne, non perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo» (Ibidem, p. 35).

Ma non è solo il Dio degli ebrei a perdere l’onnipotenza. Anche il Dio dei cristiani non ha mantenuto le sue promesse. Sergio Quinzio ha parlato di “sconfitta di Dio” in un’epoca come quella attuale dove «un domani che sia davvero pensabile come tale (come uno spazio futuro in cui possa accadere ancora qualcosa di significativo), e non sia soltanto l’indefinito prolungamento del presente (la condizione che è stata recentemente definita di «fine della storia»), sfugge totalmente all’attuale orizzonte culturale, che deve ignorare finanche la domanda. Se negasse la possibilità di un futuro diverso, manifesterebbe infatti la sua nascosta pretesa assolutistica; se l’affermasse, svelerebbe chiaramente la propria insignificanza» (op.cit., p. 79). La tesi di Quinzio è che la storia biblica è una storia di fallimenti e che la stessa incarnazione rappresenta per il Dio cristiano una perdita della sua deità, un suo “abbassamento”. Il farsi uomo di Dio è un rischio. Se il Dio dei cristiani volle farsi uomo, fu perché decise di mettere a rischio la sua stessa deità, che ora poteva essere perduta. Qualcosa sfugge a Dio. Bontà e onnipotenza non possono essere entrambi attributi di Dio. La storia è responsabilità degli uomini che la fanno. Ma la Storia, quella che fa a meno di un Dio, ha perso l’onnipotenza che si è trasferita nell’egocentrismo degli individui. Ora, per poterla sopportare e farla sopportare, la si nega, essendosi ridotta a un presente che, ripetendosi, ha perso il passato e dimenticato il futuro. È diventata indifferente, cinica, ipocrita e rifiuta ogni responsabilità in nome di una libertà e di una democrazia che mascherano il suo volto oppressivo. La libertà e la democrazia comportano la reciprocità dell’ascolto e della parola, una reciprocità che oggi è derisa, violata, uccisa in nome della libertà e della democrazia.

Matteo 27, 46: «Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: ‘Eli, Eli, lemà sabactàni?’, che significa: ‘Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?’». Cristo, prima dell’ultimo sospiro, prima di morire, era deluso, arrabbiato. Si sentiva abbandonato dal padre. Perché questo abbandono? Perché il figlio gli parla e il Padre resta muto? È forse quella stessa rinuncia all’onnipotenza che segnò la scelta del Dio di Isacco Luria, il grande cabalista ebreo del 1500? È forse la contrazione di un Dio che per dare spazio al mondo, appunto, si ritrae, causando una catastrofe in cui vengono a trovarsi il mondo e gli uomini, i quali sono ancora lì a tentare di ripararne gli effetti? È forse l’adesso di cui parla Walter Benjamin nelle Tesi sul concetto di storia, cabaliste e marxiste? È forse lo stesso Dio che non poté fermare i nazisti e impedire l’olocausto, così come lo immagina, dopo Auschwitz, Hans Jonas? È lo stesso Dio non riesce a impedire il massacro dei Palestinesi? Non saprei. Hans Jonas e Sergio Quinzio hanno in mente lo tzimtzum, la contrazione di Dio nell’atto della creazione. «Solo con la creazione dal Nulla», afferma Hans Jonas «possiamo avere l’unicità del principio divino in uno con la sua autolimitazione, che dà spazio all’esistenza e all’autonomia di un mondo» (op.cit., p. 37). Ma questo spazio si è riempito di quel male in cui morirono e muoiono bambini innocenti non per mano di Dio, ma per mano di uomini che prendono il posto dell’onnipotenza divina.

«In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et deus era Verbum» (Giovanni, 1, 1). «Il principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e Dio era Verbo». Verbo traduce Logos. Ma cos’è il logos? Logos viene da legein, legare, collegare. Ha dunque a che fare con l’idea di relazione. Da Logos deriva Dialogo (Dia-Logos), discorso fra, dunque relazione. Nel dialogo, nella relazione il legame si crea tra chi parla e chi ascolta, tra chi parla e chi dunque sta in silenzio. Nel dialogo non vi è un comando del sovrano che dà ordini e dispone, bensì un alternarsi di silenzio e di parola fra due o più persone. Se un Dio si contrare, cioè si ritrae, lascia spazio all’altro e tace perché quest’altro parli e dunque abbia autonomia e responsabilità di ciò che dice e fa. Il Logos è presso (o accanto e davanti a) Dio, il Logos è Dio. Se il Logos implica un dia-logos questo è un Dio che entra in relazione, che tace per fare parlare qualcuno che, pur essendo dentro, è al di fuori della sua deità. Ma se il Logos è accanto a Dio, ciò significa che ha avuto lo spazio di essere grazie al ritrarsi di Dio. Qui vi è un nesso tra parola, silenzio, relazione, vita. Ma vi è anche il nesso contrario tra invettiva, rumore, isolamento, morte. Tutto dipende dalla responsabilità degli uomini che, quando agiscono sanno fare a meno di Dio o gli chiedono di stare loro accanto senza intervenire oppure se ne fanno scudo per fare il male in nome del bene.

Secondo Eraclito (DK B 50), il Logos implica che il tutto è in uno. Ma se, come egli afferma, bisogna dare ascolto al Logos, ciò significa che per ascoltare bisogna tacere. Il silenzio si accompagna sempre alla parola in un dialogo fra individui, persone, soggetti, cioè in una relazione di reciprocità che è il contrario di un dire senza ascoltare l’altro. Ritrarsi vuol dire considerare l’altro non come un oggetto da comandare e neanche come un essere da tollerare, ma come una persona la cui parola costituisce un arricchimento grazie alla sua diversità e alla sua alterità. Silenzio significa proprio la parola dell’altro, il cui silenzio, a sua volta, è la parola dell’uno. Al di là di ogni vincolo istituzionale, qui sta l’essenza, a mio parere, di una democrazia assai diversa, anzi opposta a quelle che condannarono Socrate e Cristo e che invece sembrano oggi ritornate ad opprimere, distruggere, uccidere in parte con la rumorosa aggressività delle armi e in parte con la sorda indifferenza verso le oppressioni, le distruzioni, le uccisioni.

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Prof. Alfonso Maurizio Iacono
Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere
Università di Pisa

Da (“Il grande vetro”, n. 259, Estate 2024)

 

 

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