Fondato a Racalmuto nel 1980

Il gelato al cedro

Un paese siciliano lontano dal mare, due ragazzi e un viaggio verso un sogno

Il racconto di Savatteri

Gaetano Savatteri fotografato da Angelo Pitrone

Chi non è cresciuto in un paese della Sicilia remota, negato al mare, non può dire di conoscere l’estate. L’estate aspra e gessosa, di rarefatta calura, di desertificazioni pomeridiane: i giorni abbagliati e vuoti, il corso principale ritagliato a luci nette, la penombra afosa dei bar svacantati dal caldo che cola a gocce di piombo fuso, invano arginato dalle granite al cedro. Perché in quel paese, nel quale ci toccò vivere i nostri anni più tersi, solo il cedro esisteva, di sopraffino gusto e rara maestria, ma sempre e soltanto cedro. Cedro, fatto a gelato e a granita, a coppetta, a cono o a brioscia, ma comunque cedro.

Chi non è cresciuto in un paese distante da spiagge e mari, da ombrelloni e creme abbronzanti, non può sapere cosa sia l’estate siciliana, nella sua morta inedia, nella sua sfiancante allucinazione solare, nei sogni torbidi maturati all’ombra delle navate della chiesa madre, che non offrono riparo al peccato e al desiderio, ma soltanto un temporaneo rifugio prima che il sacrestano o l’arciprete scaccino via a male parole i ragazzini che fumano di nascosto dietro le colonne dell’altare dedicato a Santa Maria dell’Odigitria.

Appunto: ci toccò di vivere i nostri anni più tersi in un paese così, senza meriti né colpe nostre, ma solo per caso, come spesso accade anche ai migliori, a volte ai peggiori. Chiuso in una vallata, segnato dai monti, il paese è nebbioso negli inverni umidi e lunghi, di accupante arsura ad ogni estate, ricco di ambizioni e intelligenze, scarso di occasioni. Non avevamo ancora letto Tomasi di Lampedusa e nulla sapevamo di Aimone di Chevalley, ignoravamo che perfino il paesaggio siciliano potesse essere irredimibile, né potevamo immaginare che Gesualdo Bufalino avrebbe descritto l’assoluto dell’estate siciliana come una mischia di luce e di lutto, eppure tutte queste cose le avvertivamo in noi, indistintamente, quando a sedici anni stavamo a perdere gli occhi sul panorama scomposto di zolfare abbandonate e campi di stoppie che si apriva verso Passofonduto e Gibellini, verso contrade sperdute dai nomi evocativi e terribili di Gessi caduti o Uomini morti.

Passandoci l’un l’altro l’ultima Camel, qualcuno mormorò una parola: Taormina. Seduti all’ultimo residuo d’ombra, rari gli sguardi dei pochi passanti, altrove le ragazze che veleggiavano nella nostra fantasia adolescente, quella parola restò sospesa nell’aria ferma dell’ora di pranzo, mentre perfino il barista più stoico si approssimava alla saracinesca, pronta a calare sul vuoto deserto della controra. Taormina. Nel nostro paese, che non era lontano, ma nemmeno vicino, Taormina era suono di cembalo, canto di sirena, danza di odalisca, nettare degli dei, Nausicaa e Circe, Beatrice e Didone per chi era ancora fresco di quinta ginnasiale, indenne da materie da riparare a settembre.

Taormina, dunque. E ci parve spreco averla così vicina da rinunciarvi. E ci sembrò codardia averla così prossima da rimpiangerla. E ci apparve una sfida averla così distante da poterla conquistare.

Partirono in due, ed erano abbastanza. A comodo nostro, ci si ripeteva la strofa di una canzone di Antonello Venditti per farsi coraggio quando – appuntamento alle sei del mattino al distributore di benzina della Gulf – si scoprì che la crociata non arrivava a contare nemmeno tre volontari, tutti gli altri fermati alla vigilia della spedizione dai propri timori o da padri più autoritari dei nostri.

Ma Taormina doveva essere, e Taormina sarebbe stata. “Nino, domani a Palermo”, aveva detto il Generale a Bixio, guardando la città da Gibilrossa. Noialtri avevamo tempi più stretti, avendo l’obbligo di arrivare prima del buio della sera, ché si viaggiava a passaggi e non era il caso di farsi sorprendere dalla notte smarriti in autostrada, al bivio di Tre Monzelli o allo svincolo per Villarosa.

Il primo tratto ci venne offerto da un prete, su una 127 bianca. Si convinse che eravamo ragazzi di buona famiglia, Gnazio vantò un recente passato da chierichetto. Il parrino indagò, domandò, interloquì. Ma alla rivelazione che nostra meta finale era Taormina ci lasciò bruscamente prima di Caltanissetta, con un certo disappunto e sconcerto che ci convinsero nella nostra determinazione.

Una tappa fu concessa da un vecchio, evidentemente il proprietario della 131 verde che però guidava un altro, un giovane taciturno e dal volto sfregiato: il vecchio parlava, rideva, faceva mostra di conoscere tutto e tutti, del nostro paese, dei paesi vicini e anche di quelli lontani. Ci salutò cordialmente, lanciando molti ammiccamenti, lasciando intendere che a Taormina aveva passato bei momenti, molti e molti anni prima. Non ne ricordo il nome, ma il suo volto mi è tornato alla memoria alcuni anni fa, quando sul giornale trovai la foto di un vecchio boss ucciso a lupara: aveva lo stesso taglio di capelli e un dente d’oro; in foto sembrava perfino più giovane di come lo ricordavo.

Il terzo tratto, mentre l’ora di luglio si faceva più accesa, venne percorso su un Leoncino che portava le insegne della Coca Cola: sistemati in cabina, nel frastuono dell’albero motore, sbattuti dalle vampate dai finestrini, in un tintinnio di bottiglie, sognavamo di riuscire a bere l’intero carico. Ma l’autista, un catanese in canottiera, conosceva ogni sorgiva e polla d’acqua spontanea che sgorgava lungo l’autostrada: lasciava il camion in corsia d’emergenza, scavalcava il guardrail e, come un rabdomante, ci conduceva a piedi per campi e trazzere fino a rivoli che sembravano provenire da ghiacciai eterni. “Non ce n’è come l’acqua”, diceva, asciugandosi con il braccio. “Io roba dentro le bottiglie non ne bevo”.

Dopo un serie di lunghe attese e brevi percorsi, il tratto finale ci fu concesso dalla cortesia di un innestatore della provincia di Messina, in viaggio con una Skoda beige: si mise a parlare fitto fitto con Gnazio che ha sempre saputo tutto di vigne, di mandorli e di olivi. Forse mi addormentai, per svegliarmi in tempo prima che l’entusiasmo da agrimensore di Gnazio ci facesse cambiare destinazione, ché avrebbe voluto visitare – giusto un’occhiata – l’aranceto dell’innestatore a Nizza di Sicilia.

Taormina era lassù. Il pomeriggio dolce, Isolabella immota, il mare chiaro nelle prime ombre del tramonto, le bagnanti con i teli colorati alla vita risalivano dalla spiaggia lievi e ambrate. “Taormina”, disse uno di noi due. “Taormina”, fece l’altro, con più enfatica eco. Trovato alloggio in un albergo di fronte alla stazione, il più economico, sormontato da un enorme vecchio cartello della Birra Messina, risalimmo verso la cittadella chiusa da mura. La conquista di Troia e la distruzione di Cartagine, la vittoria di Austerlitz o quella di Vittorio Veneto erano solo carta scritta nei manuali di storia. Porta Messina, corso Umberto I, il Wunderbar, il bar Mocambo, il belvedere e perfino il profilo dell’Etna erano il nostro bottino di paesani rapaci.

Rapaci gli sguardi, adunche le occhiate, ripetevamo a ogni passo sulle basole di Taormina il ratto delle Sabine, ma questa volta erano Svedesi, Francesi, Milanesi, Americane, magari pure qualche Nissena. “Mi talia?”. “Mi talia?”. Su e giù per la stretta corrente arteriosa, avremmo voluto che i nostri amici ci vedessero, così certi e sicuri di noi per il corso di Taormina.

Ma si fecero stanchi gli sguardi e forti i bisogni. I soldi in tasca ci permettevano un arancino a testa e due birre. Consumammo su uno scalino, davanti al belvedere, fin quando la notte lasciò accese solo le luci di Giardini Naxos e via via quelle di Giarre, Riposto e tutte le Aci catanesi. Le ragazze non si fecero rapire da noi, ma scomparvero per vicoli e piazzette, per ristoranti e discoteche, su auto che andavano a valle. Una coppietta si baciava e ribaciava incorniciata dal golfo di Taormina, fino allo sfinimento, soprattutto il nostro che non avevamo chi baciare.

Col nostro denaro un gelato ancora ci era permesso. Avvistata la gelateria più fastosa e lussureggiante, restammo a lungo davanti alle vaschette. Indecisi tra gusti che non avevamo mai immaginato potessero esistere. Gnazio, più concreto e saggio, studiato a lungo l’assortimento, chiese al banconista che ci aspettava con il cono da colmare: “C’è il gusto cedro?”. “Cedro?”, si sorprese il gelataio, guardando invano tra le sue specialità. “Cedro”, disse ancora Gnazio, fermo. “No, mi dispiace. Cedro non ce l’abbiamo”, replicò quello. Gnazio guardò in alto, al cielo di luci e neon e magia di Taormina: “E che paese è questo che non ha cedro? Al mio paese c’è”. Al nostro paese solo cedro c’era, sempre e solo cedro.

Il giorno dopo tornammo indietro, per raccontare agli amici del bar una storia diversa, ricca di fama e di avventure. Non rivelammo che a Taormina non c’era il gelato al cedro: a questo non ci avrebbero creduto. Il cedro c’era perfino al nostro paese, sempre e solo cedro.

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