Agostino Spataro racconta una affascinante storia legata ad un’antica vulgata contadina
Secondo un’antica vulgata contadina la Via Lattea altro non sarebbe che la “viulata di san Jabicu” ovvero una scia di stelle, o parti di esse, cadute dalle mani di san Giacomo durante l’opera santa di abbellimento del cosmo. Così si formò il firmamento: Dio creava le stelle e san Giacomo le sistemava secondo un ordine armonico a noi ignoto che astronomi e astrologi tentano, invano, di svelare agli uomini.
Così si formò il firmamento: Dio creava le stelle e san Giacomo le sistemava secondo un ordine armonico a noi ignoto che astronomi e astrologi tentano, invano, di svelare agli uomini. In sostanza, la tradizione paragona la “viulata” cosmica alla scia di pagliuzze che si formava sulle trazzere a causa delle perdite dei volumi trasportati, con carretti o con bestie da soma, dalla campagna al paese.
Un accostamento un po’ azzardato in verità che, probabilmente, riflette un bisogno insopprimibile dell’uomo che cerca nel cielo, nelle congiunzioni astrali una risposta a molte delle sue inspiegabili ambasce. Ardite analogie che si ritrovano in certi idiomi locali quasi in disuso. Come quella ancora usata dai vecchi contadini i quali per dire “una volta”, ricorrono al termine “viaggiu” oppure “viaggiata”
Un paio di esempi. “Un viaggiu dissi a me figliu…” ; “V’arricurdati cumpà dra viaggiata quannu nni uncuntrammu a la fera di Ragona?” In fondo, in questa curiosa espressione c’è un tentativo, più o meno riuscito, di una trasposizione fantastica dal tempo al moto. Il sostantivo “viaggio” è, infatti, usato come avverbio di tempo, senza un plausibile motivo. Forse, si concepisce il tempo passato come un viaggio? La vita stessa é un viaggio? Favole! Favole del tempo malvissuto che un po’ leniscono le tribolazioni della vita.
Nell’attesa di scoprire il mistero, torniamo alla viulata di san Jabicu. Dico subito che questa mitica versione l’ho raccolta, a Montreal, dalla voce di un vecchio mezzadro mio concittadino, da mezzo secolo emigrato in Canada, il quale ricordava con nostalgia le dure fasi della stagione della “ricompensa” (raccolto). Ossia l’estate durante la quale si svolgono i lavori della mietitura, della “pisatura”, della “spagliatura” del grano, del trasporto verso casa del prezioso cereale e della paglia accumulata. Paglia calda e lucida che il vento bizzarro depositava ai margini dell’aria (aia) formando un monticciolo a forma di mezzaluna (margunata) che nelle notti d’agosto serviva da morbido giaciglio per riposare, per filosofare intorno alle stelle, ai misteri del cosmo.
L’emigrato ricordava il canto sereno nelle notti di luna quando, in groppa alla sua asina nana (“ciaschiteddra” si chiamava), andava e veniva dalla campagna al paese. L’asina conosceva la via, perfettamente, e così lui poteva rilassarsi e compiacersi della vivida bellezza del firmamento e delle comete che saettavano nel cielo più alto. Si formavano delle vere e proprie carovane di asini e muli che trasportavano il raccolto in magazzino: prima le fave e la loro paglia grigiastra che avrebbe alimentato il fuoco del “cufilaru” (la cucina), poi il grano e la paglia dorata insaccata dentro capienti reti di corda (“rutuna”) che nel tragitto rilasciavano parti della paglia trasportata.
Nascevano così le “viulati”, una rete di sentieri posticci che segnavano la via nell’arido paesaggio agrario dell’interno siciliano. Si replicava in Terra lo stesso fenomeno che, in contemporanea, si svolgeva in cielo. Qui la paglia, lassù le stelle cadute che si ammassano nella Via Lattea che traccia il cammino nell’immensità dello spazio sidereo. Nella notte di San Lorenzo si cercava un riscontro a questa fantasiosa versione. Specie in campagna dove la visione è davvero nitida e si possono osservare le code fluorescenti delle stelle cadenti che svettano come gai presagi da cui ciascuno può trarre i migliori auspici.
Oggi, che tutto deve essere hollywoodiano, a questa notte è stato cambiato il nome. La chiamano “notte delle stelle”. Una semplificazione ambigua, persino irriverente, che altera e deprime il vero significato dell’evento poiché l’accosta alla mielosa passerella dei “divi” del cinema, del premio Oscar. “Divi”? Quanta disinvolta supponenza nell’uso di un termine così impegnativo! Di questo passo, lo segnalo ai credenti, il passaggio da divo a dio può essere anche breve. Basterà eliminare la “v”!
Dal libro di Agostino Spataro “I racconti di Realturco”