Fondato a Racalmuto nel 1980

“Il mio futuro? Teatro, cinema, didattica, sudore, sacrifici e la felicità”

Nostra conversazione con Giovanni Volpe, autore, attore e regista. La passione e la tenacia di un artista profondamente innamorato del proprio lavoro

Giovanni Volpe

Autore, attore e regista. Il crescente successo che sta meritatamente ottenendo Giovanni Volpe ci racconta soprattutto la passione e la tenacia di un artista profondamente innamorato del proprio lavoro. Una prestigiosa e invidiabile carriera la sua, “frutto soprattutto – sottolinea – di grandi sacrifici”.

Come comincia tutto?

Parto subito con un aneddoto: avrò avuto 5 anni, a cavalcioni sulle spalle di mio Padre nel Teatro di Acerra, a due passi da Napoli, mio Padre ne comandava la locale stazione dei Carabinieri, quel giorno arriva per uno spettacolo Nino Taranto: mi sono ritrovato in uno stanzino in braccio a questo signore di cui solo dopo avrei intuito la portata. Ecco, mi piace pensare di aver beccato il virus quel giorno. Nino Taranto è stato un grandissimo attore, una grandissima spalla. La vecchia cara scuola del varietà fatta di raffinatissima tecnica costruita giorno dopo giorno direttamente sulle tavole del palcoscenico e da queste poi trasferite, nel suo caso, alla radio, al cinema, alla televisione, ad una carriera limpidissima. Un percorso allora possibile, oggi impensabile. Le odierne nuove generazioni di attori si formano troppo spesso in posti poco adatti al Teatro questo perché la formazione è stata surclassata dalla produzione che ha ben altri parametri. Resistono ancora alcune accademie, non tutte, dove ancora si praticano le sane metodologie dedicate alla formazione che prima ancora di essere formazione di attori e di attrici è formazione di uomini e donne, per il resto – come avvenuto anche per le scuole pubbliche – contano più gli iscritti che il sapere trasmesso, i risultati ottenuti.

Nella tua intensa carriera è molto presente Luigi Pirandello. Cosa ha rappresentato e rappresenta ancora oggi nella tua formazione il grande drammaturgo agrigentino?

Essendo cresciuto ad Acerra prima ancora che Pirandello su di me hanno influito molto i concetti legati alla musica, alla melodia, alla metrica, al melodramma, al ritmo, tutti elementi questi che esplodono e si fanno metodo consapevole poi con l’arrivo di Pirandello nella mia vita. Sembra un assurdo lo so, che c’entra la rivista e Nino Taranto con Pirandello e le sue opere? Ma quando vuoi costruirti un metodo e lo devi derivare dalle tue conoscenze, tutto partecipa alla formazione di quel metodo e la rivista, il bel canto, il buon dire, il sapere leggere bene, l’arte dell’ improvvisazione e l’arte stessa di arrangiarsi, ti aiutano a costruirti il metodo, a formarti anche un implacabile senso della disciplina che in Teatro equivale a trovarsi una strada, a costruirti un’arte e un metodo appunto, che ti insegna a sentirti parte di un tutto anche quando si è solisti. Significa imporsi orari, studio, rinunce. Il Teatro è l’unico posto al mondo dove fai compagnia, fai gruppo, sei una delle parti di un tutto, anche quando fai monologhi. Pirandello ti costringe alla conoscenza precisa, al dover sapere di te e del personaggio, ti costringe a un serrato e necessario confronto con te stesso, ti costringe all’empatia, non certo al giudizio, semmai alla denuncia del pregiudizio. Pirandello ti costringe al metodo essendo egli stesso metodo. L’incontro con lui è stato decisivo ed è avvenuto, oltre che sui banchi di scuola e all’università, con la mia prima regia di prosa dedicata appunto a una sua opera “La vita che ti diedi”. Ecco, diciamo che partire anche da Pirandello mi ha imposto ad andare avanti nella ricerca di drammaturgie sempre più raffinate ed attuali, quindi dagli anni Novanta in poi tutto il mio interesse fu indirizzato verso la nuova temperie di autori contemporanei o rilettura di classici che davano e danno ampi margini a un teatro che è soprattutto di regia, convinto come sono del suo assoluto primato in Teatro.

Raccontaci il tuo primo incontro con Andrea Camilleri

Giovanni Volpe con Andrea Camilleri

Il mio incontro con Camilleri avvenne invece anni dopo. La fine degli anni ’90 era coincisa con il mio periodo di più grande fermento. La mia attenzione per la drammaturgia contemporanea cui accennavo era oramai pressoché totale, avevo allestito e stavo allestendo opere di Cavosi, di Ruccello, nonché mie personalissime elaborazioni de “La Lupa” di Verga, “Natale in casa Cupiello”, che pensa ambientai in un sottoscala della Torino del boom, spettacolo col quale omaggiammo Eduardo al “Lauro Rossi” di Macerata in occasione del centenario della nascita del grande maestro napoletano. Questo fervore ci spinse a pensare ad una Rassegna da tenersi a Porto Empedocle dedicata si al Teatro, ma più ancora dedicata alla Regia teatrale e alla drammaturgia contemporanea e chi in quegli ultimi decenni era stato il più autorevole insegnante di regia nella Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma? Andrea Camilleri appunto, da Porto Empedocle. Mi preparai di tutto punto e come uno scolaro diligente con Mario Silvano (magnifico e generoso organizzatore esecutivo della rassegna) partimmo alla volta di Roma, accompagnati da un carissimo amico (in comune col maestro) Bertino Parisi, al quale ho voluto veramente un gran bene, dritti in via Asiago. L’incontro fu cordialissimo e ricordo con commozione e una punta di civetteria la faccia che fece Camilleri quando sfogliando i miei appunti sul primo Cartellone della Rassegna che andavo a proporgli lesse i nomi di Ruccello, Stancanelli, Cavosi, era stupito e molto favorevolmente colpito, probabilmente non si aspettava che siffatta proposta, così al passo con le istanze ultime della drammaturgia contemporanea, gli giungesse proprio dalla sua Porto Empedocle, ne fu talmente entusiasta che non solo autorizzò il cartellone, ma assicurò la sua presenza per tutta la durata della rassegna. Camilleri era capace di entusiasmi insospettabili. E ti aggiungo questo: il caso, e solo il caso, volle che quello stesso anno, il 2003, mi conferissero l’incarico di direttore artistico del “Premio RacalmareLeonardo Sciascia” o, meglio, della Rassegna Teatrale su temi sciasciani che avrebbe affiancato il Premio Letterario. Fu un’estate per me pesante quella e non per il lavoro che non mi stanca mai, ma per la tensione che, seppur a distanza, si era venuta a creare tra Vincenzo Consolo, presidente del Premio, e Andrea Camilleri. Il rapporto tra i due non era idilliaco, giusto per usare un eufemismo e la polemica che montò sui giornali non fu proprio tenera, soprattutto era Consolo ad attaccare, Camilleri abbozzava, e io mi ritrovai spesso a lavorare un giorno con uno a Sant’Agata di Militello e l’indomani con l’altro a Porto Empedocle. A tutte e due, comunque sia, non ho fatto mancare mai la mia stima e ammirazione sincere e non mi sono mai sentito in contraddizione.

Parliamo adesso di  Leonardo Sciascia, che tu definisci “Un gigante enorme”

Leonardo Sciascia fotografato da Angelo Pitrone

Si. Un gigante. Enorme. Con Pirandello e Pasolini tra i più grandi del ‘900 e non solo. Un intellettuale non potrebbe essere che come lui. Avere il polso della storia. La conoscenza e la coscienza di ciò che è stato, di ciò che è, di ciò che potrebbe essere. Il coraggio dell’analisi libera che non teme di farsi denuncia. La sua laicità che ne fa un baluardo contro ogni forma di fanatismo o fideismo. Non ci dovrebbe essere intellettuale, in qualsiasi ambito d’interesse, dalla letteratura, al cinema o al teatro, che possa prescindere dalla sua lezione e visione. Pensando al Cinema politico credo le cose migliori di quello italiano nascano dal suo incontro con Petri, Rosi e con Damiano Damiani. Il Teatro stesso se non è di denuncia, se non rende scomoda la poltrona allo spettatore è mero trastullo. Esattamente il contrario di quanto troppo spesso avviene oggi nel mondo produttivo italiano, piatto, omologato, turistico, asservito, commerciale, che non ha alcuna intenzione di svegliare le coscienze e che anzi sta bene attento a cantar loro comode ninna nanne. Alla sua lezione ci ispirammo con Gaetano Aronica quando scrivemmo Il Risveglio dell’umanità per le Albe alla Valle.

Quest’incontro segna anche il tuo inizio di una collaborazione con il Teatro Pirandello

Subito dopo aver lavorato per circa tre anni a Milano e mentre ancora lavoravo a Roma, il Teatro Pirandello fece uscire un bando per la ricerca di attori, si sarebbe allestito quello che poi sarebbe diventato uno spettacolo visionario legato a Pirandello: “Luna Pazza”. A cercare attori erano Gaetano Aronica e Marco Savatteri che firmavano sia testo che regia, andai ai provini come tutti gli altri e da lì è nato un rapporto che è durato circa tre anni e diverse produzioni ma che ancora oggi ci vede, con l’uno e con l’altro, spesso a collaborare. Con Gaetano si è riusciti a formare una compagnia che facesse all’interno del Teatro quello che tutte le compagnie fanno: laboratori, studi, ricerca e, perché no, anche produzioni libere dall’obbligo di andare incontro a quello che televisivamente si ritenga sia il gusto del pubblico. Una compagnia libera di rendere il Teatro un posto in cui si pensa, in cui si sta scomodi, in cui, attori, maestranze e pubblico, crescano insieme. Per carità il cartellone è il cartellone e il direttore artistico se lo gestisce per come meglio crede sapendo per questo di poter andare incontro a critiche o a entusiasmi, l’attività di studio e di ricerca all’interno del Teatro è cosa diversa e dovrebbe essere garantita e resa autonoma, sempre. Nei Teatri fare una stagione significa produrre fuoco, di breve o lunga durata ma destinato a spegnersi; fare attività laboratoriale di studio e di ricerca significa produrre legna, legna buona, che alimenta il fuoco a che duri.

In quegli anni con Gaetano abbiamo scritto e diretto spettacoli quali “Villa Malgiocondo” e “Il Risveglio dell’umanità”, che volevano segnare una strada, una bella strada che purtroppo ad un certo punto si è bloccata. L’attuale Fondazione Pirandello solo da poco, con l’ingresso del bravissimo Marco Savatteri sembra riaprirsi al territorio, darsi cioè obiettivi più teatrali e dedicati alla formazione e alla sperimentazione anche se ritengo manchino ancora progetti legati alla Prosa, al Teatro di Prosa, attività di produzione questa dalla quale non si può prescindere.

Milano, Torino e Roma

Gli anni di Milano sono forse quelli che da un punto di vista professionale mi hanno appagato di più. Dal 2009 al 2013 sono stati anni belli, intensi, ricchissimi di fermento creativo. Angelo Starinieri, che da pochissimo ci ha lasciati – a lui il mio commosso ricordo – e la sua parabola di manager divenuto clochard e viceversa, ha segnato la mia vita e quella di tutti quelli che in quei quattro anni lo hanno frequentato. “Quante volte un uomo” è stato uno spettacolo visionario: attori, videoproiezioni, un corpo di ballo, scenografie pazzesche e una intera orchestra dal vivo, in scena si raccontava la sua parabola e di come la vita sa metterti davanti a delle prove durissime, ma rialzarsi è sempre l’unica strada percorribile.

Torino inizialmente è stata il gemellaggio con la compagnia delle Nuove Forme e con Simone Faraon, in seguito è stata quella del gemellaggio, ancora in corso, col teatro del Baratto e con Luciano Caratto, splendido attore, grande amico.

Roma è stata madre, amante, amica. Ci ho fatto l’università, a La Sapienza e al suo Teatro Ateneo e ai suoi magnifici docenti, debbo quasi tutto quel che so. Poi è stata l’emozione dei suoi Teatri, la prima volta a Roma di un mio spettacolo, “Malerba e la lupa” per una settimana al Teatro de’ Servi. Sono stati i vent’anni di rapporto intenso, vero, fondamentale, con la rivista Conoscere per Essere e la sua immensa fondatrice, Maria Antonietta Pascarella, luce purissima nella mia vita, grazie a lei ho scritto articoli per L’Osservatore Romano e ho potuto approfondire rapporti di tipo intellettuale con splendide personalità del mondo dell’università e del sapere italiani, nonché approfondire i miei rapporti col mondo della scuola essendo lei stata per circa quarant’anni preside del Liceo Visconti nel cuore di Roma. A questa tre città aggiungo però anche Bologna, città che ho adorato, pensa che la prima volta che andai, era il 1981, ero con un ragazzo col quale mi incontrai per caso sul treno, io partivo da Grotte, lui salì a Racalmuto, e con il quale passai tre giorni bellissimi, poi lui andò a Milano e io restai a Bologna perché inizialmente dovevo iscrivermi lì all’università, cosa che poi non feci. Ti racconto questo episodio perché quel ragazzo incontrato per caso era Gaetano Savatteri (già ci conoscevamo ovviamente) con quale andammo anche a vedere uno splendido concerto di Lucio Dalla allo stadio di Piacenza. Negli anni a Bologna sono tornato diverse volte e una di queste su invito di Paola Giovannelli docente al Dams di Italianistica e del grande Giuseppe Liotta docente, sempre al Dams, di Storia del Teatro e dello spettacolo, nonché presidente dell’ordine dei critici teatrali, lì tenni una lezione con tanto di contratto per un giorno nella classe di recitazione sul tema: “Approccio ai personaggi pirandelliani”. Un ricordo indelebile.

A proposito del mondo della scuola, hai condotto diversi laboratori teatrali. Qual è oggi il rapporto tra i giovani e il teatro

Sono anni, decenni, che lavoro con i laboratori. Iniziai nel lontanissimo 1989 con un progetto pilota di prevenzione alla tossicodipendenza promosso dalla Regione Sicilia a favore dei giovani e che trovò a Comitini una delle sue realizzazioni più eclatanti; nel giro di pochi anni Comitini aveva una compagnia teatrale, una sala prove, una sala di registrazione e un proprio service audio luci. Anni bellissimi e di grande fermento. Negli anni questa esperienza si è trasferita nelle scuole con una serie di PON e di recente anche con i fondi del PNRR dedicati alla sensibilizzazione e formazione teatrale e cinematografica che quando attecchisce produce sempre dei buonissimi esiti. Di loro i ragazzi non arriverebbero da soli al Teatro, soprattutto dalle nostre parti dove i cartelloni sono quasi sempre pensati e destinati al classico pubblico degli abbonati che più che emozionare tende a rassicurare e la rassicurazione è quanto di più distante possa esserci da destinare ai giovani che vogliono invece essere sorpresi, scossi, scandalizzati, spinti. Prima di usufruirne come pubblico, i giovani devono viverlo in prima persona il Teatro e le forme laboratoriali hanno molto a che fare con le pratiche legate alla conoscenza di sé stessi, delle proprie paure, delle proprie voglie perché la pratica teatrale è liberatoria, è capace anche di innestare meccanismi di autoanalisi e autocoscienza grazie a processi che formano un percorso di crescita e che poi valgono a qualsiasi età.

Uno nessuno centomila… È il significativo titolo di un concorso internazionale destinato alle scuole e che ti vede impegnato.

Esattamente, il lavoro che Anna Maria Scicolone da anni fa per le scuole italiane nel mondo è prezioso e per questo il suo concorso riceve ogni anno sempre più attenzioni. Io sono cinque anni che sono presente con le mie master class insieme a Marco Savatteri che ne cuira la direzione artistica e scopro ogni anno un mondo giovanile internazionale, quest’anno i ragazzi oltre che dall’Italia, venivano dagli Stati Uniti, dalla Francia, dal Libano, dalla Grecia, ricco di voglia di fare e assai ben predisposto al Teatro grazie all’infaticabile lavoro di docenti che fanno con vera passione e competenza il loro lavoro. Con me i ragazzi lavorano sulla Verità dell’attore e li metto al corrente delle principali teorie e tecniche che dai primi del ‘900 arrivano fino a noi, ma non è un sommergerli di nozioni, al contrario spesso arriviamo alla teoria dopo che laboratorialmente abbiamo sperimentato un’idea, vissuto un’emozione che per quanto indotta ci costringe al confronto con essa. I laboratori danno ai ragazzi la grande possibilità di essere sulla scena quel che vogliono, li educa – gentilmente ad essere loro stessi. E per chiudere questo ambito dedicato alla didattica, la notizia è proprio di queste ore, sarò uno dei docenti tutor al prossimo Master di scrittura de La strada degli scrittori. Sarà un’ulteriore occasione per tentare di trasmettere quelle poche cose che so e di veicolare, attraverso esse, tutto l’amore che ho per il Cinema e per il Teatro.

E del Tèsia che mi dici?

Il Centro Studi Tèsia è stato il padre e la madre di tutto. Nato a Grotte nel 1985 è rimasto attivo per circa 5 anni e in questi 5 anni abbiamo sperimentato. In un piccolo paesino dell’entroterra agrigentino facevo e facevamo studi sul Living Theatre di Judith Malina e Julian Beck. Studi sull’espressionismo fisico, sulla mimica teatrale come mezzo di racconto e in questo senso abbiamo costruito tre spettacoli: “Elì Elì Lemà Sabactàni”, sulla passione morte e risurrezione di Cristo ispirato a Jesus Christ Superstar, spettacolo il nostro che restò famoso per l’apparizione finale del Cristo risorto dai tetti sulle case poste di fronte il palco e spettacolo al quale rendo omaggio quest’anno (quasi quarant’anni dopo con il mio ultimo lavoro (“Naufraghi”). Il secondo fu uno spettacolo dedicato all’emigrazione che si chiamava “TONINO” (La Transizione) che molti anni dopo divenne il mio primo romanzo edito da Medinova e il terzo fu “STELLE di PACE” ispirato ai film “Hair e The Wall”. Fu una partenza col botto e quei giorni, quell’esperienza, sono rimasti nel mio cuore così come tutti i ragazzi che all’epoca ne fecero parte.

Naufraghi

Lo hai già citato TONINO, il tuo romanzo

Si come ho appena detto l’idea di TONINO risale al 1986, nel 2020 decido di “chiuderlo in romanzo”, sì perché TONINO in origine era, e direi ancora è, un trattamento termine con il quale al Cinema è indicata quella parte della scrittura che sta a monte di tutto: della sceneggiatura, del piano di produzione, a volte del soggetto stesso. Il trattamento è il romanzo del film che comprende ovviamente anche sviluppi e origini di episodi e personaggi che poi nel film non si vedranno neanche. Grazie a quella splendida persona che è Antonio Liotta, oggi TONINO è un romanzo edito da Medinova e racconta la storia di un ragazzo, di un uomo, nato ad Erbesso in provincia di Argento in Sicilia e morto nella tragedia dell’11 settembre 2001 a New York. Il romanzo racconta, non è una storia autobiografica in senso stretto, un’amicizia. E la storia di Tonino è appunto raccontata dall’amico sopravvissuto che cerca di dare un senso agli infami anni in cui ha vissuto la mia generazione figlia del boom degli anni Sessanta, ma cresciuta poi negli anni del terrorismo prima italiano, poi internazionale e che adesso vede tutto sottosopra senza punti di riferimento che un tempo erano importanti. Una generazione passata attraverso figure quali Pasolini, Sciascia, il cinema Politico, il Teatro dei grandi e finita in mano alla balordaggine dei social e delle tv commerciali. Generazione che ha conosciuto il genio celebrato di Fellini, ma anche la sua decadenza, cioè il suo esser morto senza riuscire a farsi produrre un ultimo film. Parabola molto significativa questa. Dalla logica degli autori a quella dei produttori, dall’arte al profitto. Brutta cosa, bruttissima. Ecco TONINO racconta gli anni delle illusioni e quelle del disincanto, gli anni politici della caduta del muro e quello delle cadute delle torri gemelle. TONINO però si apre infine alla speranza, la speranza delle piccole cose, della solidarietà di chi ancora e nonostante tutto è capace di empatia. Certo mi piacerebbe farne un film, ma senza soldi un film così non lo si fa.

Ma tu hai già dei film all’attivo…

Si, con grandissimi sacrifici sono riuscito a realizzare due lungometraggi indipendenti “PREGHIERA” e “SUL’ AMURI” girati entrambi con pochi mezzi ma con disponibilità enorme di cuore da parte di tutti. E poi una serie di contro metraggi anche di natura scolastica nei quali però non ho esitato a lasciare un’impronta di tipo autorale. Film, lunghi o corti che fossero, nei quali ho potuto sperimentare e toccar con mano quanto appreso nei miei studi a Roma che sono stati anche di Cinema e di scrittura cinematografica. E infine, a proposito di Cinema, l’ultima esperienza con Franco Carlisi per il quale ho recitato da attore nel suo corto, il bellissimo “Non Sai Quanti Nomi Ti Ho Dato”, che tante soddisfazioni ci sta dando in giro per festival. Il Cinema resta comunque un’arte in cui il sistema produttivo è tutto.

Quali sono le tue valutazioni, ormai a pochi mesi, su Agrigento Capitale della Cultura

Ma guarda io vedo un battersi e dibattersi attorno a questa cosa che mi lascia veramente un po’ perplesso. Agrigento è la città e la provincia che ha dato i natali a LUIGI PIRANDELLO, a LEONARDO SCIASCIA, ad ANDREA CAMILLERI, è la città della VALLE, la qualifica di città Capitale della Cultura dovrebbe spettarle da sempre e per sempre; invece, siamo ancora alla nomina straordinaria che per carità ben venga ma solo se sarà vissuta veramente nell’ottica culturale di dare lustro e visibilità a cotanta bellezza di storia e di arte e magari risolvendo mali oramai atavici che si stanno sempre più incancrenendo.

Il futuro

Teatro, cinema, didattica, sudore, sacrifici e la felicità, che, per dirla con Dalla, chissà su quale treno della notte starà viaggiando…

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