Fondato a Racalmuto nel 1980

Chi decide cosa e chi sia umano?

Rispetto al riconoscimento dell’altro vi sono, nella storia del pensiero occidentale, delle differenziazioni

Alfonso Maurizio Iacono

Per i Greci antichi barbari erano tutti i non greci, i Moderni, sedicenti campioni dell’universalità, hanno ristretto il campo fingendo di allargarlo assimilando i barbari ai selvaggi e ai primitivi. Chi erano i barbari? Coloro di cui non si comprendeva la lingua (bar bar = bla bla). Chi erano i selvaggi? Donne e uomini che vivevano nelle selve, nelle foreste. Chi erano i primitivi? Esseri umani che pur essendo contemporanei, vivevano come se si trovassero dentro quei primi tempi che gli occidentali civilizzati avevano superato. Assimilare i barbari e i selvaggi ai primitivi fu una sottile, maliziosa e grande opera di colonizzazione, un modo di riconoscere l’altro come eguale ma, nello stesso tempo, come diseguale, come inferiore. I barbari e selvaggi sono oggi come eravamo noi prima che la civiltà ci facesse progredire e ci rendesse superiori. Il tempo assicurava una diseguaglianza tra popoli e uomini nello stesso momento in cui se ne riconosceva l’umanità. I concetti di arretrato e avanzato, di sottosviluppo, in via di sviluppo, sviluppato, crescita e decrescita ecc. sono tutti derivati dalla visione della storia come progresso, dove l’altro, colui che un tempo veniva chiamato barbaro, selvaggio, primitivo si trova in basso nella scala del tempo dove il dopo è dotato di valore superiore al prima.

I selvaggi sono dunque identificati con i primitivi e dunque riconosciuti e inclusi all’interno della storia universale, ma alla condizione di essere collocati all’indietro nella linea del tempo e del progresso, al gradino più basso della scala gerarchica. L’universalità viene dispiegata secondo il punto di vista occidentale che tende a spingere la molteplicità verso quell’uno (uni-versum) costituito dall’identità occidentale. Eppure, nemmeno questo ipocrita procedimento basta a includere tutta l’umanità. Gli abitanti dell’Africa nera, per esempio, non vi possono accedere.

In realtà, rispetto al riconoscimento dell’altro vi sono, nella storia del pensiero occidentale, delle differenziazioni. Per es. i neri africani sono stati considerati in modo diverso degli indiani americani. Ma non è solo questo. Il fatto è che filosofi, campioni della tolleranza e della libertà, della spregiudicatezza e del riconoscimento dell’altro, a proposito dei neri africani, cadono anch’essi nei pregiudizi peggiori e più banali.

Mi limito a citare tre passi: uno di Hume, uno di Kant e uno di Hegel. Tra i Saggi politici, morali e letterali di David Hume ve ne è uno che si intitola: Dei caratteri nazionali. Alla nota F si trovano le seguenti osservazioni:

“Io propendo a ritenere che i negri e in generale tutte le altre specie di uomini (infatti ve ne sono 4 o 5 specie diverse) siano naturalmente inferiori ai bianchi. Non è mai esistita una nazione civilizzata che non sia stata di razza bianca e nemmeno è esistito qualche individuo eminente nell’azione o nella speculazione che non sia stato bianco. Fra i negri non si trovano né ingegnosi manufatti, né arti, né scienza; d’altra parte i più rozzi e barbari fra i bianchi, come per es. gli antichi germani o i tartari di oggi hanno ancora in realtà qualcosa di rilevante appunto nel loro valore, nella forma di governo e in qualche altro particolare. Una differenza così costante ed uniforme non potrebbe verificarsi in tanti Paesi e in tante epoche se la natura non avesse posto una distinzione originaria tra queste razze umane. Per non ricordare le nostre colonie, vi sono schiavi negri sparsi in tutta Europa dei quali nessuno ha mai scoperto delle manifestazioni di ingegno, mentre da noi gente umile e senza educazione si affermerà e si distinguerà in ogni professione. In Giamaica in verità parlano di un negro come di uomo fornito di abilità e di cultura; ma è probabile che egli sia oggetto di ammirazione per qualità molto modeste; come un pappagallo che pronuncia poche parole alla buona”.[1]

Questo è lo scettico e spregiudicato David Hume, colui che altrove ha scritto: “tutti gli uomini si osservano tra loro con sorpresa, e non è possibile ficcar loro in capo che il turbante dell’africano è un’acconciatura non migliore né peggiore del cappuccio dell’europeo”.[2]

 Nello scritto del 1764 Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime si leggono le seguenti considerazioni, che Kant trae in parte da Hume:

«I negri dell’Africa non hanno dalla natura alcun sentimento che li elevi al di sopra di uno sprovveduto candore. Il signor Hume sfida chiunque a trovare un solo esempio di negro dotato di talenti e afferma che, tra centomila negri che vengon deportati dai loro ad altri paesi, sebbene ne sian rimessi in libertà moltissimi, non se ne è mai trovato uno che sia emerso in modo significativo nell’arte o nella scienza oppure per qualche altra qualità eccezionale, al contrario, tra i bianchi continuamente si affermano individui provenienti dall’infimo popolino che si conquistano la stima nel mondo per le loro doti eccellenti. Così sostanziale è la differenza tra queste due stirpi umane da essere tanto grande quanto la differenza di colore. La religione dei feticci, tra loro ampiamente praticata, è forse una specie di idolatria che tanto sprofonda nella stupidità quanto sembra esser possibile alla natura umana. Una penna d’uccello, un corno di bue, una conchiglia o ogni altra cosa comune, non appena è resa sacra con una formula magica, è un oggetto di adorazione e di invocazione negli scongiuri. I negri sono molto vanitosi, ma a modo di negri, e così chiacchieroni da dover esser cacciati via con bastoni»[3].

L’ultimo passo, forse quello più noto è di Hegel, il quale nelle Lezioni sulla filosofia della storia scrive: “Ciò che caratterizza l’indole del negro è la sfrenatezza. Questa loro condizione non è suscettibile di alcun sviluppo ed educazione: come li vediamo oggi, così essi sono stati sempre. Nell’immensa energia dell’arbitrio sensibile, che li domina, il momento morale non ha alcun potere preciso. Chi vuol conoscere manifestazioni spaventose delle nature umane può trovarle in Africa: le più antiche notizie su questa parte del mondo dicono lo stesso. Essa non ha dunque propriamente una storia”[4].

Per Hegel l’Africa nera e i suoi abitanti non fanno parte della storia universale. Paradosso dell’universalità! Nella cultura occidentale moderna anche l’universalità espelle chi, come gli abitanti dell’Africa nera, non ha i requisiti necessari per essere invitato al simposio dell’umanità.

Quel famoso detto che il grande commediografo latino Terenzio fa dire a un suo personaggio: homo sum: nihil humani a me alienum puto (sono un uomo: niente che sia umano reputo essere a me estraneo) ci rinvia alla domanda sull’universalità. Se è vero che di ciò che è umano niente può essere pensato come estraneo, dove si trova il confine tra umano e non umano, quando la cultura occidentale impone un’universalità che o include gli altri al prezzo di una bassa posizione nella scala gerarchica dei popoli e delle nazioni, oppure li esclude del tutto, facendoli uscire dunque da ciò che è reputato umano e trasformando dunque gli altri in estranei?

Chi decide cosa includere nell’universale? Chi decide cosa e chi sia umano?

______________

[1] D. Hume, Dei caratteri nazionali, in Saggi e Trattati morali, letterari, politici e economici, Utet, Torino, 1974, pp. 399-400.

[2] D. Hume, Storia naturale della religione, Laterza, Bari, 1970, p. 89.

[3]I. Kant, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, Milano, Rizzoli,1989, pp. 134-5.

[4] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, vol. 1, La Nuova Italia, Firenze 1947, p. 262.

Prof. Alfonso Maurizio Iacono
Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere
Università di Pisa

Da

Passioni&Linguaggi, 4 agosto 2024)

 

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