Fondato a Racalmuto nel 1980

Insegnamento e potere

L’insegnamento e l’apprendimento sono relazioni e, in quanto relazioni, hanno a che fare con l’idea di formazione e con la pratica del potere.

Alfonso Maurizio Iacono

Kant, in un passo celeberrimo, definisce l’illuminismo come l’uscita da uno stato
di minorità e la minorità come l’incapacità di usare l’intelletto senza la guida di un
altro. Kant, dunque, identifica l’illuminismo con l’autonomia.

L’insegnamento e l’apprendimento sono relazioni e, in quanto relazioni, hanno a
che fare con l’idea di formazione e con la pratica del potere. Scopo
dell’insegnamento e dell’apprendimento in quanto formazione di un individuo è
l’autonomia. Senza formazione non si riceve un’informazione che non sia,
direttamente o indirettamente, imposta. Senza formazione non si dà
quell’autonomia necessaria a far sì che si possano governare criticamente le
informazioni. Finora il non detto della scuola è che la formazione critica è resa
possibile soltanto per un’élite, mentre per una scuola pubblica di massa il non
detto è che questa deve ridursi a procedure meramente tecniche di informazione.
Ai tempi della Riforma Gentile la scuola pubblica d’élite era rappresentata dal
Liceo Classico, oggi, in una democrazia ad oligarchica allargata, dal Liceo Classico
e dal Liceo Scientifico. Certo, tutto è confuso, così come è confusa l’attuale scuola
di massa (più o meno tutte si chiamano licei o I.S.I.S.) che oscilla senza risultati
tra la riproduzione (più o meno nascosta) di una scuola d’élite e la distinzione di
classe tra ricchi, meno ricchi e poveri, a cui corrisponde una malcelata indistinta
distinzione tra formazione critico-teorica e insegnamento tecnico-pratico. A
nessuno viene più in mente che, in una democrazia capace di incorporare il futuro
dentro sé stessa, il diritto allo studio consisterebbe nell’estendere la formazione
critica a tutti come base per uno sviluppo della diversità individuale a partire dalle
condizioni reali di eguaglianza.

La relazione insegnante-alunno è sempre sull’orlo del fraintendimento in cui
cadde Socrate. Come ha ricordato Hannah Arendt in Philosophy and Politics
(“Social Research”, n. 1, Spring 1990), l’errore di Socrate consistette nel volere
applicare il dialogo (dialeghesthai, parlare di qualcosa insieme a qualcuno) là
dove, in democrazia e nei tribunali era d’uso applicare la persuasione e la retorica uno-molti. Ogni insegnante degno di questo nome deve correre il rischio di
Socrate facendo ricorso alla dialettica uno-uno, al dialogo (dia-logos: discorso fra,
dunque relazione), proprio mentre egli si confronta con i molti. Essere autorevole
senza essere autoritario. Deve sapersi ritrarre lasciando spazio all’alunno senza
per questo abbandonarlo o fuggire da lui, anzi restandogli accanto con il suo
potere che è il suo sapere. È la maieutica di Socrate: aiutare l’altra/o a tirare fuori
quello che ha già dentro di lei/lui. L’insegnamento è un apprendere nella
relazione. L’apprendimento è come l’illuminismo definito da Kant: un modo di
uscire dallo stato di minorità, e l’uscita è l’autonomia. Sta all’alunno occupare lo
spazio lasciato libero, sta a lui praticare l’autonomia dentro una relazione che si
modifica. È proprio il cambiamento che distingue una relazione di potere da uno
stato di dominio.

In uno dei suoi ultimi interventi, una lunga intervista, Michel Foucault suggerisce
due tipi di distinzione che possono risultare assai utili ai fini della questione qui in
gioco, cioè la difficoltà o l’impossibilità di acquisire l’autonomia, e dunque l’uscita
dalla minorità, anche in un contesto in cui è stata invece raggiunta la libertà. La
prima è quella fra liberazione e pratiche di libertà, la seconda è fra stati di
dominio e relazioni di potere. Si tratta di distinzioni che emergono dall’esperienza
delle rivoluzioni e delle lotte di liberazione di questo secolo, ma che vanno estese
alle condizioni di vita politica di uno stato democratico odierno. Dopo che le
rivoluzioni si sono compiute e le lotte di liberazione sono terminate con una
vittoria, dopo che un’azione liberatrice ha raggiunto lo scopo, non soltanto il
problema del dominio e di chi lo esercita si presenta di nuovo, ma vi si aggiunge
qualcosa in più: l’autorevole legittimazione di uno stato che porta con sé anche il
dominio della parola “libertà”, ormai segnata dal processo rivoluzionario o
liberatorio e resa sacra.

Criticare il riprodursi di uno stato di dominio entro un contesto dove la libertà è
stata resa sacra da un processo rivoluzionario, liberatorio, democratico, diventa
allora assai difficile, se non impossibile. Si è spossessati anche del nome e della
parola. Il dominio affermato in nome della libertà, in seguito a un atto storico che
è stato effettivamente liberatorio, tende a rendere inefficace ogni critica che ha
per scopo l’uscita dalla minorità e l’autonomia. A differenza di ciò che pensava
Kant due secoli fa, oggi il problema non è soltanto quello di realizzare, grazie alla
volontà, ciò che è già stato posto potenzialmente dalla storia, cioè un contesto di
libertà oggettiva a partire dal quale si rende possibile l’uscita dalla minorità. Oggi
si è aggiunta una complicazione: ottenute le condizioni di libertà grazie a una
rivoluzione o a una lotta di liberazione, queste, come in una sorta di metamorfosi,
finiscono con il convivere con nuovi modi di essere del dominio. Il dominio risorge
sotto le spoglie delle libertà. È ciò che è accaduto e sta accadendo nella scuola.

Un passaggio che si presenta come una via obbligata verso la libertà nega per
questo la libertà stessa. Non è detto che a un processo di liberazione si
accompagni necessariamente il raggiungimento dell’autonomia. Quest’ultima,
infatti, non è tanto una meta da raggiungere, ma una condizione di esistenza che
non può (non deve) mai ridursi al lato oggettivo della libertà. Ma la distinzione
foucaultiana fra processi di liberazione e stati di dominio introduce a un’altra
distinzione, quella, già accennata, fra relazioni di potere e stati di dominio. “Le
analisi che ho cercato di fare vertono essenzialmente sulle relazioni di potere.
Con queste intendo qualcosa di diverso dagli stati di dominio. Le relazioni di
potere pervadono profondamente le relazioni umane. Questo non significa che il
potere politico sia dappertutto, ma che, nelle relazioni umane, vi è tutto un fascio
di relazioni di potere, che possono esercitarsi fra individui, in seno a una famiglia,
in una relazione pedagogica, nel corpo politico. L’analisi delle relazioni di potere
costituisce un campo estremamente complesso; essa si imbatte talvolta in quelli
che possono essere definiti i fatti o gli stati di dominio, dove le relazioni di potere,
invece di essere mobili e di permettere ai diversi partner una strategia che li
modifica, si trovano bloccate e fisse. Quando un individuo o un gruppo sociale
giungono a bloccare un campo di relazioni di potere, a renderle immobili e fisse e
a impedire ogni reversibilità del movimento – con strumenti che possono essere
economici, politici o militari -, ci si trova di fronte a quello che può essere definito
uno stato di dominio” (L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in
Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3, Feltrinelli, Milano
1994).

I rapporti fra genitori e figli, per esempio, sono relazioni di potere basate su
gerarchie e dissimmetrie, ma diventano stati di dominio quando non si modificano, quando cioè la comunicazione simbolica è in una parte decisiva utilizzata per il mantenimento e la conservazione dei rapporti così come sono. Secondo Foucault non possono esistere società senza relazioni di potere.

Ogni atto comunicativo da parte di chi si trova più in alto nella relazione di potere
(un genitore, un maestro, un terapeuta) può essere finalizzato a ricordare a colui
che si trova più in basso la sua posizione e le conseguenti sottomissione e
obbedienza che sono a ciò dovute. Ogni atto comunicativo di questo tipo
trasforma la relazione di potere in stato di dominio

Dicevo prima della parola “autorità”. Da essa derivano aggettivi assai diversi fra
loro come autorevole e autoritario. L’autorevole implica l’esempio e
l’apprendimento, l’autoritario implica l’obbedienza. Tra essere autorevoli ed
essere autoritari scorre tutto il fiume che separa e nello stesso tempo unisce
relazioni di potere e stati di dominio. L’insegnamento in quanto relazione di
potere è come la democrazia: combattendo gli stati di dominio, insegue,
realisticamente e utopisticamente al contempo, un’improbabilità per renderla
possibile. La pratica maieutica del dialogo fra amici si oppone al dominio della
persuasione e della retorica nel rapporto uno-molti; l’affermazione di una
dialettica dove il silenzio e la parola, come l’ascoltare e il dire, si alternano, va
contro un mondo dove i molti sono esposti alla persuasione e alla seduzione
dell’uno e non possono che assentire e applaudire oppure inveire e urlare come fa
la plebe di fronte al capo. Qui sta, o dovrebbe stare, la simbiosi tra democrazia e
utopia, tra insegnamento e autonomia, tra apprendimento e futuro.

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Prof. Alfonso Maurizio Iacono
Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere
Università di Pisa

_____________________

Da

DOPPIOZERO

 

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