In Sicilia, ad oggi, sono state recensite ben trentasette diverse varianti della sua ricetta
Un tempo, in Sicilia, e più esattamente tra il ‘500 e il ‘700 – ovvero i due secoli che coincisero con la dominazione spagnola dell’isola – esisteva una ricetta molto particolare e tipica delle nobili tavole cui sedevano gli aristocratici iberici: alici, sgombro, polipetti, merluzzo e, soprattutto, capone, precedentemente cotti e poi serviti in una salsa agrodolce. Alla base di questo succulento piatto, come appena scritto, non poteva mancare il capone (ovvero, la pregiata lampuga) che, tagliato a pezzetti, era amalgamato ai tocchetti degli altri tipi di pesce. Tale saporitissima pietanza, presentata all’occorrenza come antipasto o come contorno dei tanti e variegati secondi, cominciò a essere chiamata proprio rendendo omaggio al suo protagonista indiscusso, il capone. Da lì, infatti, venne definitivamente battezzata e riconosciuta ovunque come “Caponata” (anche se una più debole tesi etimologica farebbe risalire il suo nome direttamente dall’etimo greco antico captòs, ossia “tagliato”, proprio in riferimento al fatto che gli ingredienti venivano preparati a pezzetti).
Ma ecco succedere quello che non ci si aspetta. La fama di questo piatto oltrepassò il ceto nobiliare – colpito, sì, dalla sua bontà ma abituato da sempre a gustare le migliori leccornie gastronomiche – divenendo quasi mitico nei molto poveri ambienti popolari, dove però sorse subito un enorme problema da risolvere: la lampuga era un pesce troppo costoso per le vuote tasche della maggior parte della gente, quindi si dovette ideare uno stratagemma per superare l’ostacolo. Detto, fatto. L’inarrivabile capone fu sostituito con uno degli ortaggi più comuni, economici e di facile reperibilità che ci fossero sull’isola: la melanzana. Ovviamente, questo “principio di sostituzione” (un vero classico nella storia della gastronomia isolana, per fortuna) fu applicato anche a tutti gli altri ingredienti originari, non meno introvabili e onerosi della lampuga. La fantasia e la necessità, di cui in questi casi si fa sempre virtù, permisero il concepimento di quella che sarebbe poi diventata una delle ricette più iconiche, tipiche e allettanti della cucina povera (si fa per dire…) siciliana, ovvero la Caponata esattamente così come noi oggi la conosciamo e come ce la invidia il mondo intero (tanto da aver ispirato anche la famosa Ratatouille francese).
Ma andiamo con ordine. Dicevamo dello scambio degli ingredienti: non più quindi i costosi sgombri, polipetti, merluzzi, alici e lampughe, ma invece i molto più economici ortaggi e verdure freschi di stagione, dalla melanzana al sedano, dalle olive alle cipolle, dai capperi al pomodoro, tutti rigorosamente cotti (fritti o stufati) e poi conditi con la tipica – e buonissima – salsa agrodolce, ottenuta dall’unione tra concentrato di pomodoro, zucchero e aceto. Ed eccola di fronte a noi, la regina di ogni antipasto, mangiabile anche come contorno o sostituendo il secondo, de gustibus. Ma non sono pochi, anzi, coloro che la gustano anche a metà mattinata, accompagnata da dorate fette di pane appena sfornato o nel pomeriggio, a mo’ di merenda salata. Libero spazio alla gola, senza inutili regole fisse e da osservare scrupolosamente: se piace, piacerà a ogni ora, tranquilli, è più che normale.
E a ulteriore dimostrazione (qualora ce ne fosse ancora bisogno) dell’importanza e della considerazione che girano attorno alla Caponata, non stupisce il fatto che in Sicilia, fino a oggi, siano state recensite ben trentasette diverse varianti della sua ricetta, praticamente una media di almeno quattro in ogni nostra provincia. Dalla palermitana alla ragusana, dalla catanese alla trapanese, dall’agrigentina alla messinese, nei diversi territori le piccole differenze vengono annoverate come caratteristiche assolutamente uniche che hanno generato un’inevitabile competizione al riconoscimento della migliore.
Gara, lo precisiamo, che naturalmente non avrà mai fine, come la fantasia in cucina e la ricerca del gusto