La recensione di Margherita Rimi al libro di Giuseppe Maurizio Piscopo Ci hanno nascosto Danilo Dolci, edito da Navarra
Nel titolo del suo libro, l’autore Giuseppe Maurizio Piscopo sottolinea che la figura di Danilo Dolci è stata trascurata negli ultimi decenni, quasi volutamente nascosta. Proprio per questo evidenzia la necessità di scoprirlo e riscoprirlo, come una caccia al tesoro. Il libro, perciò, ha il merito di riportare alla ribalta la figura di Danilo Dolci, nel centenario della sua nascita. Si tratta di un volume che Piscopo intende presto riprendere nell’intento di apportarvi ulteriori modifiche e integrazioni: un work in progress, insomma, ma che già tanto ci dice di Dolci.
Dolci va riscoperto, specialmente in questo tempo in cui il dominio della violenza delle armi e della guerra imperversa, in diverse parti del mondo; e in cui il potere assume facce e identità sempre diverse e ambigue. Va recuperato il suo insegnamento che diviene necessario, che ci fa da guida, il suo spirito di pacifista. Danilo Dolci, dunque, non va taciuto né va nascosto, anzi bisogna sempre più portare alla luce la sua esperienza di uomo e intellettuale, la sua azione, il suo pensiero. È questo lo scopo che si prefigge l’autore con questo libro.
Nella nota introduttiva Piscopo scrive: «L’obiettivo di questo libro è quello di far conoscere la storia di questo grande personaggio, le sue metodologie, raccontando le vicende relative alla vita e all’opera, anche e soprattutto attraverso le testimonianze di chi lo ha conosciuto e di chi ha lavorato con lui. Ritengo che i suoi metodi siano ancora oggi necessari per comprendere in profondità la realtà del Meridione e dare valore a ciò che è stato conquistato con fatica. L’esperienza di Danilo Dolci può consentire a tutti noi di contribuire a un’ulteriore evoluzione personale e collettiva» (p. 16). E ancora Piscopo: «Sono nato in un paese difficile e amaro dove la morte è stata sempre di casa. Nella mia infanzia ho vissuto parecchie ingiustizie» (p. 13). L’autore fa riferimento al paese della Sicilia in cui è nato: Favara, in provincia di Agrigento. Ed è proprio in Sicilia che, negli anni ’50, Dolci, proveniente dal Nord, decide di vivere. È la Sicilia che sceglie, per compiere la sua battaglia umana e intellettuale contro il degrado sociale, ambientale e culturale, contro l’indigenza, la mancanza di lavoro, la mortalità infantile. Contro la sopraffazione della mafia.
Il libro onora il suo impegno per lo sviluppo di una terra dove, nel dopoguerra, il governo e la politica non riuscivano a garantire alcuni dei diritti elementari, tra questi anche il diritto alla vita. Il volume è diviso in due parti: nella prima parte Piscopo documenta le principali tappe della vita di Dolci, descrive le fasi salienti del suo impegno intellettuale, di poeta e scrittore, di educatore; le tappe del suo viaggio politico-civile e di attivista per la pace. La seconda parte è costituita da testimonianze di intellettuali e scrittori che lo hanno conosciuto e apprezzato; e, ancora da scritti di suoi collaboratori. Insomma un recupero memoriale della figura di Dolci, attraverso testimonianze e racconti, vissuti personali di chi lo ha conosciuto e ha anche condiviso con lui parte del suo percorso. I contributi sono di Nino Fasullo, Pino Lombardo, padre Cosimo Scordato, Maria Di Carlo, Marco Simonelli, Giuseppe Carta, Gianluca Fiusco, Salvatore Di Marco. A chiusura del libro troviamo la postfazione del figlio Amico Dolci dal titolo emblematico Danilo e i bambini.
L’impegno di Danilo Dolci, in Sicilia, è iniziato nel 1952 tra Trappeto e Partinico, nel palermitano, «dove suo padre, ferroviere, aveva svolto servizio come capostazione e lui aveva passato le vacanze estive nel 1940 e nel 1941» (p. 25). Un luogo di richiamo, dunque, legato in qualche modo alla sua fanciullezza. Nel libro sono ricordate le diverse attività e iniziative che hanno caratterizzato il suo impegno: nello stesso 1952, Dolci fa il primo dei suoi tanti digiuni sul letto di un bambino morto per fame; in modo clamoroso focalizza, così, l’attenzione sullo scandaloso e grave problema della malnutrizione dei piccoli e della povertà, della morte. Nel 1956, a Trappeto, organizza uno sciopero che lui stesso chiamerà sciopero alla rovescia: tanti disoccupati si mettono al lavoro per completare una strada comunale abbandonata, e mai finita.
Lo Sciopero alla rovescia è un’idea geniale e una pratica pacifica e, allo stesso tempo, rivoluzionaria concepita da Danilo Dolci, per contestare e denunciare lo stato di disoccupazione e di miseria in cui versavano i tanti abitanti della zona.(p. 48).
A lui si deve ancora la creazione del Centro Studi e Iniziative per la Piena Occupazione (p.18), a cui destina il ricavato in denaro del Premio Lenin per la Pace, assegnatogli nel 1958. Apre anche diverse sedi nei Comuni della Sicilia occidentale. La funzione del Centro Studi era quella di promuovere attività e interventi per l’occupazione e contro la povertà, a favore di un territorio degradato sia strutturalmente che socialmente. Il Centro Studi è anche luogo di incontro e di ascolto, dove ci si interroga, ci si confronta, dove si decide. (p. 58).
Dolci ebbe una particolare attenzione per i bambini, non solo per lo stato fisico di malnutrizione, ma anche per la loro educazione. Essi furono al centro della sua riflessione e della sua azione: per loro, negli anni ’70, realizzò La scuola di Mirto: «fu costruita a contatto con la natura dopo un attento confronto con i bambini» (p. 36).
Danilo Dolci ne scrive nel bellissimo libro Chissà se anche i pesci piangono. Documentazione di un’esperienza educativa (Einaudi, 1973), recensito peraltro anche da Gianni Rodari nel giornale «L’Ora» di Palermo, del 6 luglio 1973, dove scrive: «” Educatori”, per Danilo Dolci sono tutte le persone che sanno aiutare gli altri a costruirsi. Non basta (ma è indispensabile, naturalmente) che essi dispongano di una tecnica corretta per insegnare quello che sanno: occorre che siano interessati agli altri, che sappiano stare tra gli altri come una persona che insegna e impara in ogni momento, da se stesso e da tutti. La cattedra non fa il maestro. E nel nuovo centro educativo non vi saranno cattedre».
In Chissà se anche i pesci piangono viene messo in evidenzia come la nascita della scuola di Mirto e il nuovo impegno educativo, nascano principalmente dal confronto e la collaborazione con il territorio: bambini, genitori, insegnanti; poi anche con il contributo di intellettuali, artisti ed educatori. Una creazione artistica e politica, per usare le parole del figlio, Amico Dolci, che così scrive: «ritengo che ogni lavoro autenticamente educativo sia un lavoro politico. E viceversa» (p.115); e ancora, a proposito del confronto tra la parola pedagogia – poco amata dal padre – ed educazione, scrive: «esiste la scienza-arte dell’educazione» (ibidem). E poi, a proposito di Chissà se anche i pesci piangono, così si esprime: «sono riportate le voci dei bambini e delle bambine, dei ragazzi, delle donne e degli uomini che hanno contribuito con le loro riflessioni a creare le premesse per la costruzione di un nuovo Centro Educativo (in campagna, poco fuori Partinico), che tuttora è meta di visitatori da ogni parte del mondo»(p. 117).
La scuola di Mirto è dunque una scuola diversa da quella istituzionale, sia come struttura che come modalità di insegnamento: un centro educativo sostenuto dal pensiero che i piccoli devono essere considerati come un differente punto di osservazione del mondo, rispetto agli adulti. I piccoli hanno una loro visione del mondo e della realtà.
Dolci capì la grande importanza del bambino, il suo essere “diverso” dall’adulto, così come Maria Montessori la quale afferma: «Anche nella natura ci sono due forme di vita: la vita dell’adulto e la vita infantile: assai diverse, anzi contrastanti.» (Il segreto dell’infanzia, Garzanti, 1992).
La scuola di Mirto è dunque una scuola diversa da quella istituzionale, sia come struttura che come modalità di insegnamento: un centro educativo sostenuto dal pensiero che i piccoli devono essere considerati come un differente punto di osservazione del mondo, rispetto agli adulti. I piccoli hanno una loro visione del mondo e della realtà. Dolci capì la grande importanzadel bambino, il suo essere “diverso” dall’adulto, così come Maria Montessori, la quale afferma: «Anche nella natura ci sono due forme di vita: la vita dell’adulto e la vita infantile: assai diverse, anzi contrastanti.» (Il segreto dell’infanzia, Garzanti,1992).
O come Gianni Rodari che sostiene l’esistenza di una «civiltà dell’infanzia» (La grammatica della fantasia, Einaudi, 1973). E noi aggiungiamo, facendo un passo più avanti, che i bambini sono portatori essi stessi di una civiltà, che abbiamo chiamato la civiltà dei bambini. E di cui Dolci fu consapevole. Così scrive Amico Dolci, sottolineando ancora il riguardo del padre verso i bambini: «la sua attenzione era sempre rivolta al futuro, non tanto per l’indomani o la settimana successiva – pur importanti, nel riuscire ad affrontare situazioni specifiche e risolverle – quanto piuttosto nel cercare di individuare per ciascuno un desiderio, un talento particolare, un bisogno, magari inespresso, da fare emergere» (p.114).
L’azione di educatore di Danilo Dolci non si limita alla lotta contro l’analfabetismo, in senso stretto, ma contro l’analfabetismo delle coscienze, l’ignoranza di pensiero e comportamento in cui venivano tenuti uomini e donne della Sicilia. Perciò il suo operato adempie a un compito più vasto: educativo e formativo insieme, e in questo coinvolge anche gli adulti, gli individui tutti. Da essi tira fuori non solo le facoltà tecnico-manuali, ma anche le qualità umane e morali, intellettive, sociali ed etiche; le idee, la coscienza. Questo è il suo metodo maieutico. Non c’è da impartire nessuna verità precostituita. È tutto un complesso lavoro che mira allo sviluppo della coscienza individuale e sociale, contro la costrizione all’ignoranza, alla mancanza di conoscenza e di coscienza di sé e degli altri, in cui veniva tenuto il popolo siciliano da parte di alcuni poteri politici e mafiosi, ma anche da parte di alcuni esponenti della Chiesa (pp. 49, 53; 66-67, 70). Dolci non è stato agitatore di folle ma agitatore di coscienze, di idee, e per questo ancora più temibile da parte di chi deteneva i vari poteri che dominavano, in quel tempo, in Sicilia. Tra questi è compreso il potere di far passare la convinzione che niente può cambiare, che tutto è destinato all’immobilità. E che la sorte dell’uomo è la sopportazione delle ingiustizie, e del sacrificio. Dolci, invece, con la sua esperienza, ci dimostra il contrario: un grande esempio per tutti.
«Uomo del Nord» lo definisce, nell’introduzione al libro, Salvatore Ferlita «che una volta poggiato il piede in Sicilia è stato in grado di metterla a soqquadro, sollevando il velo di ipocrisia e ingiustizia che per troppo tempo ha nascosto ferite sanguinanti e cancrenose» (p.6).
In diversi punti del libro vengono ricordate le denunce che Dolci fece contro la mafia – quando la parola mafia non era neanche pronunciabile – e il suo potere sopraffattore, i suoi legami con parte della politica e il malaffare: cause in cui risiedeva la condizione di estrema arretratezza della Sicilia. Dolci ne scrisse in Spreco (Einaudi, 1960). Il Borgo di Dio fu il centro delle lotte pacifiche di Danilo Dolci: «era un laboratorio di progresso o, secondo alcuni, il covo di un “ribelle” che s’era messo in testa di dare ai siciliani acqua, lavoro e soprattutto dignità. Il Borgo di Dio era la casa di Danilo Dolci, in quell’angolo misconosciuto di Sicilia, Trappeto, dove aveva scelto di portare avanti la sua missione […] rimane un simbolo della Sicilia che resiste e che si ribella all’ingiustizia e alla prepotenza della mafia» (p. 27).
Dolci fu conosciuto in tutto il mondo, fu un richiamo per tante personalità nazionali e internazionali che, per lui, in diverse occasioni arrivarono in Sicilia: tanti intellettuali, scrittori, artisti, politici, tra questi si ricordano Carlo Levi, Aldo Capitini, Norberto Bobbio, Cesare Zavattini, Vittorio Gassman; e tra i siciliani Leonardo Sciascia e Renato Guttuso, Elio Vittorini, Lucio Lombardo Radice. Ma la lista non finisce qui (p. 22). Si tennero, perciò, seminari e incontri e scambi culturali e di idee. Un convegno che fece clamore fu quello che Dolci organizzò nel 1960 a Palma Montechiaro, nell’agrigentino, così descritto nel libro: «un importante convegno per discutere delle condizioni di vita e di salute nelle zone arretrate della Sicilia Occidentale. Vi aderirono molte personalità delle istituzioni politiche e amministrative, sindaci, deputati, il Parlamento siciliano, scrittori, giornalisti, dirigenti di vari partiti, medici, artisti e tanti altri ancora. Ne ricordo alcuni: l’onorevole Lelio Basso, l’editore Giulio Einaudi, il sociologo Franco Ferrarotti, l’onorevole Andrea Finocchiaro Aprile, il giornalista Roberto Ciuni, l’onorevole Ludovico Corrao, l’ingegnere Domenico La Cavera, lo scrittore Enzo Lauretta, l’onorevole Ugo La Malfa, l’architetto Bruno Zevi ed altri. Erano presenti molte figure di primo piano del Partito Comunista, ma anche della Democrazia Cristiana, dei repubblicani e di altri partiti politici. Tanti i relatori. Presero la parola Girolamo Li Causi, Francesco Renda e Giorgio Napolitano.
Il convegno ebbe una notevole risonanza in Italia e all’estero. Gli atti, incomprensibilmente, per lunghi anni non vennero pubblicati. Per fortuna, nel 2013, cioè cinquantatréanni dopo, l’Associazione “Peppino Impastato” di Cinisi (Palermo) decise di rispolverare quel faldone e portare alle stampe gli atti, affidandone la cura allo scrittore e storico Pino Dicevi, originario di Montelepre (Palermo) con il titolo Danilo Dolci: una vita contro miseria, spreco e mafia. Il corposo volume, di ben 464 pagine,vide la luce per i tipi del trapanese editore Coppola» (pp. 91-92).
Vogliamo finire con un capitolo del libro intitolato La difesa di Calamandrei dove ne viene riportato il memorabile intervento, nel ruolo di avvocato, nel processo del 1956 in difesa di Danilo Dolci e degli altri lavoratori imputati, a causa di una manifestazione di protesta per il lavoro. Le parole di Piero Calamandrei sono emblematiche, coraggiose, senza retorica e di forte impatto emotivo: per il sentimento di giustizia e di verità che suscitano. Per tutta la loro verità giudiziaria e umana che esprimono: «Gli assassini ci sono, ma sono fuori di qui, sono altrove: si tratta di crudeltà più inveterate, di tirannie secolari, più radicate e più potenti; e più irraggiungibili» (p. 100). E ancora contestando i capi di imputazione dice: «È forse un delitto digiunare in pubblico? Digiunare vuol dire disturbare l’ordine pubblico? L’ordine pubblico di chi? Ci sono a Partinico, oltre pescatori, altre migliaia di disoccupati. La Costituzione dice che il lavoro è un diritto e un dovere. Allora che cosa fanno settemila disoccupati: invadono le terre dei ricchi, saccheggiano i negozi alimentari, assaltano i palazzi, si danno alla macchia, diventano banditi? No. Decidono di lavorare: lavorare gratuitamente; di lavorare nell’interesse pubblico». E si esprime pure sul senso più profondo delle leggi e sulla loro necessità di esistere: che, poi, è quello che si ricongiunge all’essere umano, che non prescinde dall’essere umano stesso. «le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarci entrare l’aria che respiriamo, metterci dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue, il nostro pianto […]. Se non fossero questo, non sarebbero che carta morta» (p. 102).
Danilo Dolci è stato tante cose insieme: sociologo, pacifista, educatore, architetto, scrittore e anche poeta, con una grande dose di utopia e visionarietà. Con tutto il suo bagaglio culturale e umano, tecnico e di conoscenza, Dolci ha profuso tutta la sua energia per cambiare la Sicilia, e forse anche il mondo. In parte ci è riuscito, solo in parte, perché il mondo e la Sicilia non si possono cambiare in “una vita sola”; perché è necessario un lavoro che passi ancora di mano in mano, di generazione in generazione. A tutti noi lascia un profondo insegnamento da trasmettere, non da nascondere: questo lo scopo del libro.
Tra le tante cose che è stato e che ha fatto, potremmo definire Danilo Dolci con un una sola parola: un umanista che ha messo al centro della sua azione l’uomo con la sua dignità, i suoi valori e ha contrastato tutto quello che va contro questa umanità.
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Margherita Rimi, poetessa e saggista, medico e Neuropsichiatria infantile, svolge un’intensa attività di prima linea per la cura e la tutela dell’infanzia, contro le violenze e gli abusi sui minori e a favore dei bambini portatori di handicap. A questi temi ha dedicato diverse pubblicazioni, tra le quali: Le voci dei bambini (Mursia, 2019); Il popolo dei bambini. Ripensare la civiltà dell’infanzia (Marietti-1820, 2021). Ha ricevuto diversi premi, tra i quali il Piersanti Mattarella.