Storie. Un mistero che appartiene alla vita e alle opere del pittore che si firmava “Monoculus Racalmutensis”
Un occhio solo e misterioso nella Sicilia del Seicento seppe cogliere le luci e le ombre del Caravaggio. Un pittore del profondo sud che, pur rimanendo legato alla sua terra, come tanti siciliani chiusi e appartati, si dimostrò invece aperto ai fermenti culturali del mondo.
Questo “mistero” che appassionò tanto Leonardo Sciascia, appartiene alla vita e alle opere di Pietro D’Asaro detto appunto il “Monocolo di Racalmuto”.
Riusciva a fare con un solo occhio quello che gli altri facevano con due, scrisse Sciascia, che organizzò tra il 1984 e il 1985 una mostra di cui ancora oggi resta memorabile il ricordo di una delle iniziative culturali di spessore dedicate a D’Asaro.
Un pittore che allegoricamente si firmava “Monoculus Racalmutensis“: e c’è in questo scherzare sulla sua menomazione tutta l’ironia che appartiene ai racalmutesi di “tenace concetto”, come D’Asaro, come Fra Diego La Matina, l’eretico, come Marco Antonio Alaimo, il protomedico che salvò Palermo e la Sicilia dalla peste del 1624.
Nato nel 1579 a Racalmuto, di Pietro D’Asaro gli storici raccontano di una giovinezza trascorsa nelle più importanti città d’Italia, a girovagare da Napoli a Roma, da Genova a Milano, probabilmente spinto e guidato (e protetto) dai Del Carretto, in quel tempo Signori di Racalmuto, potenti in tutta l’isola. Tanto girovagò per poi tornare, senza perdere di vista i rapporti con Palermo, nella sua Racalmuto: qui, tra queste viuzze strette e umide, volle creare una bottega da dove uscirono tele per i Palazzi, le Corti e le chiese di mezza Sicilia. Non si esclude che operò in quella strada che ancor oggi porta il suo nome, al suo tempo frequentata da artisti e suoi allievi e da preti, monaci, nobili e galantuomini che venivano da ogni parte a commissionare disegni e dipinti.
Operò in un periodo compreso fra gli ultimi decenni del secolo XVI e la prima metà del XVII quando in Sicilia si assiste al passaggio dal tardo manierismo alla parentesi caravaggesca. Molte delle sue opere, infatti, richiamano il Caravaggio, come i “canestri” di limoni e frutta nostrana che ritroviamo in alcune sue opere.
Un “virtuoso disegnatore” lo definisce nel 1788 Padre Fedele da San Biagio, pittore e letterato, descrivendolo come uno dei più grandi artisti siciliani del suo tempo, legato al toscano Filippo Paladini e allo Zoppo di Gangi con cui condivise anche un rapporto di parentela, come spiegò Don Biagio Alessi, profondo conoscitore del pittore racalmutese.
Nella storia della Sicilia, l’orbo di Racalmuto merita, secondo Sciascia, un posto privilegiato essendo un pittore “che non ci si può permettere il lusso di ignorare”.
LE OPERE LASCIATE A RACALMUTO
Uomo assai colto, sensibile agli avvenimenti culturali del suo tempo, Pietro D’Asaro ha lasciato in tutta la Sicilia e soprattutto in molti centri dell’agrigentino, innumerevoli opere. Nella sua città natale si conservano in alcune delle chiese principali, tanto da poter creare un vero e proprio “sentiero del Monocolo” che parte dalla chiesa del Carmelo dove si trovano il “Crocifisso con i SS. Ausiliatori” e la “Sacra Famiglia“. Si prosegue, percorrendo i vicoli del centro storico, fino alla chiesa del Monte con “La Vergine appare a San Biagio“, opera realizzata probabilmente con l’aiuto di qualche suo discepolo. Ma è nella chiesa Madre che si ammirano opere importanti come “L’Immacolata con i SS. Francesco e Chiara“, “Cena in Casa del Fariseo” (cui occorrerebbe un intervento di restauro) e la straordinaria “Madonna della Catena“, uno dei dipinti più compiuti e maturi del Monocolo, che tanto piacque a Vittorio Sgarbi in una sua recente visita nel paese di Sciascia.
Alla “Madonna della Catena“ è legata anche parte della storia di Racalmuto per la presenza di due fanciulli, probabilmente promessi sposi, Maria Branciforti e Girolamo III Del Carretto. Un dipinto commissionato dal conte Giovanni Del Carretto come ex voto, in ringraziamento alla Vergine, alla Sacra Famiglia e ai santi Rocco e Rosalia per essersi salvato dalla peste del 1624. In quel periodo si registra l’arrivo a Racalmuto, sempre grazie ai potenti Del Carretto, delle reliquie della “Santuzza”, patrona di Racalmuto, di cui il D’Asaro realizzò un dipinto di cui oggi non c’è più traccia.
Sempre al Duomo si conserva l’autoritratto del pittore, ironico e misterioso anche questo, ritrovato negli anni cinquanta nei vecchi armadi della sagrestia, da un giovane cappellano appassionato di arte e poesia, Don Alfonso Puma, che anni dopo, divenuto arciprete, molto s’interessò della figura e delle opere di Pietro D’Asaro. Alla Chiesa dell’Itria, oggi chiusa, appartengono la “Madonna dell’Itria” e il “San Michele Arcangelo“, mentre il “San Giuliano” si conserva nella chiesa omonima, accanto alla struttura che in quel tempo ospitava i frati agostiniani.
IL MISTERO DELLA SEPOLTURA
Pietro D’Asaro fece di Racalmuto il suo universo, e qui – secondo un antico documento, un atto del 1603 conservato nel prezioso archivio della Matrice – volle essere sepolto. E precisamente nella chiesa di Santa Maria, al cimitero, chiusa al culto nel 1866, una delle prime chiese di tutta la diocesi, un tempo convento.
Il documento spiega bene l’altare riservato a lui e alla sua famiglia, il secondo nella navata sinistra, dotato della “Lapidazione di Santo Stefano“, opera dello stesso D’Asaro oggi custodita al Palazzo Abatellis di Palermo. Nella stessa chiesa riposano le ossa di Donna Melchiorra Lanza, moglie di Girolamo Del Carretto e altri influenti uomini di chiesa, nobili e borghesi d’alto rango. Questa sua sepoltura, tuttavia, è sempre rimasta un mistero che ancora divide gli storici.
Un altro mistero, dunque. Sulla sua vita e sulla sua morte avvenuta all’età di 68 anni.
Ma se quell’occhio solo seppe incantare la Sicilia del Seicento, vale la pena oggi ritornare sui passi del Monocolo. Tornare a studiare le sue opere, farle conoscere agli studenti, cercare ancora negli archivi e tentare di saperne di più di questo grande Racalmutese che, pur rimanendo sperduto nell’altipiano di Racalmuto, guardò all’Italia e all’Europa attraverso i linguaggi del suo tempo, moderni e all’avanguardia.
A dimostrazione, e vale anche per oggi, che la provincia non è mai provinciale, e che dai piccoli centri possono emergere le “microstorie” che, per dirla ancora con Sciascia, ci riportano alla “grande storia”.