L’ANNIVERSARIO Trentacinque anni senza lo scrittore, malgrado tutto
Il 20 novembre 1989, poche ore dopo la morte di Leonardo Sciascia, i muri del suo
paese, Racalmuto, furono tappezzati di manifesti funebri. La gente si fermava a
leggere con attenzione, come sempre fa, gli annunci listati a lutto per decifrare
parentele e amicizie, per contare la popolarità dello scomparso. E mai in quel paese a venti chilometri di Agrigento c’era stata tanta carta stampata appiccicata sulle pareti di pietra e gesso, bagnate di colla fresca e di umidità autunnale. D’altra parte era morto uno scrittore che di carta stampata ne aveva prodotta assai, quindi sembrava inevitabile che se ne andasse in un paese interamente ricoperto di carte ancora lucide di inchiostro. I paesani di Sciascia si additavano l’un con l’altro i nomi di celebrità, politici, intellettuali, attori e registi che comparivano sui manifesti di cordoglio.
Tra i tanti manifesti, firmati da gente che per i racalmutesi esisteva solo in televisione, ne compariva uno anonimo. Riportava una sola frase, abbastanza sibillina: “La morte è terribile non per il non esserci più, ma, al contrario, per l’esserci ancora e in balìa dei mutevoli ricordi, dei mutevoli sentimenti, dei mutevoli pensieri pensieri di coloro che restano“. Non c’erano sigle, simboli o nomi che potessero far risalire all’autore di quella frase, scelta come ambiguo epitaffio di uno scrittore che amava certe ambiguità letterarie al punto da aver deciso di far scrivere sulla propria tomba: “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”.
Il ricordo, la memoria. Lo scrittore che dice di voler ricordare questo pianeta, aprendo strada alle ipotesi che, seppur da laico, credesse in un qualche tipo di aldilà. L’anonimo che invece mette in guardia dal pericolo che i ricordi possano cambiare col tempo, cambiando l’identità del morto, il quale non può più replicare. La gente di Racalmuto leggeva i manifesti, con le mani in tasca per il freddo, e si chiedeva chi avesse scritto quella frase sulla morte e la memoria mutevole. Un professore, amico di Leonardo Sciascia, svelò l’enigma: “È una frase di Nanà, è presa dal suo romanzo Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia“.
Restò irrisolta la questione su chi avesse scelto quella frase per ricordare lo scrittore che temeva le trappole del ricordo. A un certo punto, arrivò l’attacchino comunale con un altro manifesto. Aveva solo una frase, altrettanto ambigua: Malgrado tutto. Perché malgrado tutto? Malgrado che cosa? Gli inviati dei grandi giornali, mandati a Racalmuto dalle loro testate per raccontare l’ultimo ritorno del grande scrittore nel “selvaggio borgo natio”, si scervellarono attorno a quelle parole. Molte ipotesi, nessuna risposta esauriente.
Sarebbe bastato chiedere ai paesani che osservavano curiosi, diffidenti e un po’ disillusi, quel gran circo preti, vescovi, carabinieri, onorevoli che sfilava sotto le telecamere dietro alla bara del grande illuminista siciliano, quasi a riprodurre tutte le figure che Sciascia aveva raccontato con ironia nei suoi libri. Malgrado tutto era solo il titolo di un piccolo giornale locale che si stampava a Racalmuto, al quale lo stesso Sciascia aveva regalato con generosità alcuni suoi articoli e interventi. Un giornale, pubblicato da un gruppetto di liceali. Un giornale che Sciascia amava fino a dire che “Malgrado tutto, per il amico Gesualdo Bufalino, e anche per me, è il più bel titolo che si sia mai trovato per un giornale“.
Quegli stessi ragazzi, uniti nella passione per scrittura e letteratura, passione ispirata dal fatto di essere cresciuti nel paese di Sciascia, sentendosi in qualche modo personaggi in cerca di autore che avevano già incontrato l’autore che raccontava Racalmuto – ribattezzata Regalpetra – un paese di contadini e di zolfatari, di sindaci e di arcipreti, di sbirri e di mafiosi, avevano pensato di fare il loro piccolo colpo di mano, stampando quel manifesto con la frase di Sciascia. Era il loro modo per dire: attenti, adesso salteranno fuori sciasciani dell’ultima ora, gli avversari diranno di essere stati amici, i detrattori diventeranno estimatori.
Non era una profezia, ma si rivelò avvertimento profetico: negli anni successivi alla sua morte, molti si sono appropriati di Sciascia, sia da destra che da sinistra. Alcuni ne hanno preso le distanze, sminuendone la statura letteraria e civile. Qualcun altro, se ne è addirittura dimenticato. A luglio scorso, nel decreto della Regione che finanziava oltre quattro milioni di euro per Agrigento Capitale della Cultura, erano previsti soldi per spettacoli teatrali e musicali, per sagre e feste religiose, per convegni su Pirandello e su Camilleri, ma Leonardo Sciascia non era mai citato.
Dimenticato? Sicuramente nel 2025 qualcosa verrà fuori: la Fondazione Sciascia, il museo “CasaSciascia”, il Circolo Unione o la Strada degli Scrittori qualcosa faranno, a Racalmuto o ad Agrigento.
Dimenticare Sciascia? O ricordarlo? E come? Andando a vedere la sua statua nella piazza di Racalmuto, portando un fiore sulla sua tomba o leggendo i suoi libri? A trentacinque anni dalla morte dell’autore de Il giorno della civetta, ritorna il tema della memoria, caro a Sciascia che, appunto, ha scritto il libro Il teatro della memoria e ha ispirato la fortunata collana “La memoria” della casa editrice Sellerio. Ma c’è un tipo di memoria da evitare, quella che Sciascia detestava. Nella sua casa nella campagna di Racalmuto, una sera d’estate, diceva: “Spero di non diventare né
un’attrazione turistica né un bene culturale“. E sorrideva, accendendo un’altra
sigaretta.