Gente di Fotografia, l’editoriale di Franco Carlisi
Era scontato, tutto sembrava naturale, quasi ovvio. L’infanzia, e poi la vita intera passata cercando di interpretare il mondo attorno. Ma certe cose non le puoi raccontare; vedi solo la superficie di quello che potrebbero essere e non è mai ciò che davvero conta. Perché quello che conta, ciò che è essenziale, rimane nascosto, al di là della portata di ogni parola. E le parole, solo a pensarle, rendono tutto reale, definitivo. Meglio un’immagine incerta: una fotografia. Forse la bellezza non è solo in ciò che cogliamo, ma anche in ciò che intravvediamo e ci sfugge, che si nasconde ai margini della nostra percezione.
La luce fiondava il velo mencio della tenda mosaicando di bagliori confusi il mobilio; sfrangiava di un azzurro polveroso le locandine di mostre lontane appese alle pareti; dilagava sui limoni lunari raccolti sotto un vaso di fiori stanchi. Questa volta non avrebbe scattato, inutile mettersi ancora alla prova. Sentiva l’agguato di un fallimento. Ma lì, in quel momento c’era Bianca sdraiata sul divano. Gli occhi chiusi, il respiro lento, i capelli sciolti che ricadevano sul pavimento e si fondevano con la loro stessa ombra. Per un attimo si domandò se fosse davvero lì. Tutto era diventato così opaco.
Sapeva che non avrebbe resistito. C’era qualcosa in quelle geometrie di luci feroci e ombre sfaldate, un’armonia che lo trascinava indietro, negli automatismi della sua vita precedente. Quella foto sarebbe stata un atto finale di resistenza, un’ultima scintilla di quella bellezza che aveva guidato la sua vita: la prova che lei esisteva, che anche lui esisteva, almeno in quel frammento di luce, almeno in quell’ istante. Le sue mani si muovevano ansiose, a memoria sull’attrezzatura. La macchina era pronta. Le foglie dei limoni tremolavano appena alla brezza che entrava dalla finestra aperta, spandendo nell’aria odore di zagara e voci di donne e di bambini in strada, risate e grida, prima familiari, ma oramai estranee al suo mondo.
Era rimasto lì, con la macchina fotografica ancora stretta tra le mani, cercando di trattenere quel momento il più a lungo possibile. Ma già sentiva il vuoto avvolgerlo.
Tano non aveva mai pensato alla cecità. Non per lui, almeno.
Inizialmente avevo nei suoi confronti un interesse, per così dire, antropologico: polistrumentista, scrittore e fotografo di qualità attirava verso di sé l’ingiustificato furore dei geni incompresi: il talento non ha colpa e, si sa, non è democratico. Mi piaceva associare la sua immagine a quella di Koudelka, con quel di più di inclinazione allo squilibrio mentale che da sempre si associa allo status di artista.
Indovinavo la sua vita leggendo Cheever, Cortázar, Salinger: le notti ubriache, le mattine con l’amaro in bocca, le infinite sigarette fumate fino al filtro. Quando lo conobbi aveva già perso la vista. “La cecità non arriva tutta insieme.”, mi raccontò, “È una discesa. I confini delle cose si sfumano. Il mondo perde le sue misure, i suoi colori, le sue promesse. Diventi un intruso nel tuo stesso spazio. Circondato da ombre senza corpo, voci senza volto, vuoti senza limiti.
Finché arriva il buio. Non il nero caldo di una stanza prima di addormentarsi e neanche il buio compatto e definitivo, come avrei pensato. Piuttosto, un caffè all’americana che, se aggiungi un po’ di latte, si rischiara di sprazzi luminosi come bagliori, come scintille di una vampa, ma fredda, lontana, siderale”.
Non era solo il buio che lo spaventava. Era quel vuoto, quel senso di essere tagliato fuori dal resto del mondo, quell’ abisso di incertezza, quella frattura che si era creata tra il suo corpo e il mondo.
Ma un uomo non può smettere di sperare che qualcosa, anche solo un frammento della persona che è stato, sopravviva. Allora, chiudeva gli occhi – come se ci fosse una differenza – e mi raccontava di una foto, forse la sua migliore che era andata smarrita. Mi raccontava di una strada bagnata dalla pioggia, una di quelle mattine dove la luce è implacabile, di un volo di piccioni riflesso in una pozzanghera mentre una donna passava con un eskimo consunto e le calze a pois. La composizione perfetta, la luce giusta, il gesto esatto. E un’altra volta di un viso di donna, di quelli che non dimentichi mai, anche se sai che dovresti. E ancora, del passo di un tizio che se ne andava con una promessa di ritorno alle spalle e una specie di allegria addosso da farti sentire meno solo. Indugiava sulla perfezione della scena, tanto effimera quanto definitiva. Erano tutte fotografie che aveva visto ma non aveva scattato.
All’intelligenza artificiale mi accosto con una certa infelicità mista a frustrazione: mi chiama a ricordare quanto enorme sia ciò che non so e quanto sia minacciata la mia individualità. Essendo il suo processo randomico, infatti, non si può escludere la probabilità che tra miliardi di prompt forniti da miliardi di persone, non generi prima o poi due immagini identiche. Di fatto, sull’argomento non ho inteso moltissimo. Le mie teorie, ancora in fase di ricerca sperimentale, non hanno valenza scientifica, evidentemente. Per cui, essendo portatore sano di pensiero radicale, procedo a tentoni come chi non conosce ciò che troverà al prossimo passo.
Gliene parlai, spiegandogli il processo e prospettandogli la possibilità di far esistere le foto che non aveva scattato, al di fuori della sua testa. Accolse la proposta con un misto di curiosità e scetticismo riservandosi di darmi una risposta l’indomani. Accettò perché non aveva nulla da perdere -disse- mentre, aggiunse che per me sarebbe stata un’esperienza di “cecità”.
Per Tano, come per tanti, fotografare era un atto semiotico complesso, una decodifica e una ricodifica attraverso lo sguardo.
“Il fotografo che si affida all’intelligenza artificiale per produrre immagini” -disse- “utilizza un processo che non comprende del tutto e che sfugge alla sua intenzionalità. Per un fotografo, quindi, affidarsi all’IA è come perdere la vista in senso metaforico: rinunciare alla profondità e alla singolarità del proprio sguardo e quindi al contatto con il reale. L’immagine generata da un algoritmo non ha più un referente diretto nel mondo fisico. È un segno che si astrae dalla realtà concreta; non è più un’esperienza sensoriale che coinvolge l’intero corpo, ma il prodotto di una simulazione. E se è vero che ci riconosciamo in quello che facciamo, l’uso dell’IA implica una frattura nella percezione di sé. Proprio come nel caso della cecità”.
Dopo questa sorprendente premessa – del talento di Tano ho già accennato-, si sedette di fronte alla macchina e descrisse l’immagine che aveva in mente nei minimi dettagli: la luce, l’umore del cielo, l’espressione indecisa della donna, l’atmosfera di quel momento irripetibile. L’intelligenza artificiale elaborò i prompt, e l’immagine si presentò davanti al mio stupore, esattamente come l’aveva descritta Tano. Precisa, concreta, reale.
Quante volte avevo cercato l’immagine definitiva, la sintesi di tutto ciò che avrei voluto raccontare. Toccare con lo sguardo il mondo fuori, sentirne le vibrazioni. Ore ed ore di attese, di aspettative, sfinimenti, delusioni. E all’improvviso ti accorgi che la macchina non solo sa come fare, ma lo fa meglio. È più veloce, più precisa, non si stanca mai. Una capitolazione. Questo rappresentava quell’immagine davanti ai miei occhi, la mia capitolazione di fotografo di fronte a un algoritmo che non possiede coscienza né cultura.
Tano riusciva a percepire la mia meraviglia mista a scoramento e frustrazione ma liquidò laconicamente la questione con un “Questa immagine, qualunque cosa sia, non è la mia fotografia”. Forse era vero, la sua fotografia non era solo una scena sapientemente descritta dalla fantasia di uno scrittore; era il risultato di una esperienza vera con tutte le sue sfumature interiori, vissuta con gli occhi, la mente, il corpo tutto. L’immagine era unica, perché unica era la sua esperienza del mondo. E non importa che non l’avesse scattata, lui era lì e l’aveva vissuta. Se la portava dietro con il peso di tutte le notti passate a cercare un senso alla vita, col sapore acre delle sigarette fumate, a sorvegliare l’ansia a ragionare sul finire del tempo.
Nonostante tutto, continuavo a magnificare fin quando lui sembrò non ascoltarmi più. Tornò a chiudere gli occhi -come se cambiasse qualcosa – e ritrovò la sua fotografia tra il ricordo e il desiderio. Non perfetta, non finita, ma sua. Lì, viva e misteriosa, dove era sempre stata. Mormorò: “Che ne sa la macchina del dolore o della meraviglia di sentirsi vivo”.