Fondato a Racalmuto nel 1980

Sulle orme degli sbirri di Sciascia

INTERVISTA a Giuseppe Governale. Il Generale Scrittore ha letto e riletto lo scrittore di Racalmuto e ora, in pensione, ha scritto un libro sugli investigatori sciasciani. “Sono molto attratto dal Capitano Bellodi, uno che usa la testa, non deraglia mai”. Ieri la presentazione del libro ad Agrigento con Felice Cavallaro 

«Il punto centrale della questione è che lei, io, noi, l’Italia… fra uno sbirro bravissimo ma inaffidabile e uno affidabile – sebbene di più modesto livello – non abbiamo scelta. È l’affidabilità la qualità più importante che dobbiamo chiedere a un uomo delle forze dell’ordine. L’unico attributo a garantirci che sta facendo solo gli interessi costituzionali; interessi di giustizia e verità. Che ce ne facciamo di un’aquila che lavora per se stessa? Guardi cronaca di questi giorni a raccontarci di super poliziotti che spiano, vendono, trafficano…poveri noi!».

Mentre parla e si fa ascoltare uno pensa di avere sbagliato clamorosamente persona. Perché questo signore alto, magro, atletico, simpatico, alla mano, dall’eloquio facile e da poco in pensione, che incontri per la prima volta, non può essere la persona che ti hanno mandato a intervistare, il generale dei carabinieri che ha scritto un libro dal titolo Gli sbirri di Sciascia (sottotitolo: Investigatori e letteratura, tra arbitrio e giustizia) Zolfo editore (pp. 144, 16 euro) da pochissimo nelle librerie.

Per i tempi e le pause che utilizza pensi a un attore. Racconta episodi storici e cronaca di tutti i giorni come un interprete navigato, recita interi pezzi a memoria di prosa sciasciana senza esitazioni ed errori. Parla, gesticola, s’accalora, incita, si entusiasma, libera il torrente di ricordi, citazioni ed esperienze, proprie di chi ha «una certa pratica del mondo». Giuseppe Governale, 65 anni, palermitano, sposato, tre figli, una vita nell’Arma, ha chiuso la carriera da generale di corpo d’armata. Il suo curriculum è alto così, è stato comandante del Ros, direttore della Direzione investigativa antimafia, a capo della Legione siciliana («sono stato orgogliosamente l’unico palermitano a ricoprire questo incarico») e prima era stato in missione sostanzialmente lungo tutta la Penisola. Dopo un’esistenza con la valigia in mano («sono un siciliano di scoglio dopo essere stato a lungo in mare aperto») ha scelto il cuore del centro storico di Palermo come buen retiro. «La casa l’ha scelta mia moglie. È stata l’unica condizione che mi ha posto per rimanere qui».

Difficile incontrare un lettore di Leonardo Sciascia così appassionato, così “devoto” si potrebbe dire. E così acuto. Ha letto tutto, e più e più volte, dello scrittore di Racalmuto. «Decine di volteIl giorno della civetta”», ammette. E, in effetti, è venuta fuori una specie di enciclopedia della sbirritudine sciasciana, un distillato di personaggi e situazioni che compongono una sorta di geografia dell’investigazione e del senso della giustizia (e in controluce anche dell’arbitrio e del sopruso), rovello di una vita dell’intellettuale scomparso ormai 35 anni fa.

Perché quella parola dall’accezione negativa, sbirri, apre il libro di un generale dei carabinieri?

«Mi ha sempre colpito enormemente ciò che i mafiosi pensano di noi, ad esempio. Sciascia, nel suo romanzo più famoso, oltre la famosa ripartizione antropologica in cinque categorie, quella che contempla anche i quaquaraquà, in bocca al mafioso ne mette un’altra, meno nota, quando gli fa dire su un brigadiere che “era nato sbirro, come si nasce preti o cornuti”».

E chi è lo “sbirro nato”?

«Alla fine è quello inavvicinabile. Quello sempre sorvegliato, che non si lascia ammansire dal contesto. La sintesi che ne fa Sciascia, dalla visuale del notabile in odor di mafia, è che dello sbirro «nato» non ti puoi fidare. Anche se lo contatti, lo avvicini, lui ha mille riserve “sei sempre quello che risulta dalle carte che tiene in ufficio”; quindi un avversario ostico, non duttile, addomesticabile come certuni che “sono paste d’angelo” che ricevono favori, “casse di pasta e damigiane dolio”. Insomma, uno che mantiene saldi i principi che lo ispirano, ma non ha preconcetti».

Non sarà facile?

«No. E costa molto mantenere la rotta. Quando si passa una vita in servizio cambiando spesso sede, si matura una certa tendenza a diffidare, a non avere amici. Insomma, a essere soli. Anche i figli di Dalla Chiesa hanno raccontato che spesso il padre gli impediva di andare in certi posti, a certe feste, in casa di certi cognomi. Penso che, inevitabilmente, l’approccio di un investigatore debba essere pieno di riserve, ma senza pregiudizi».

Marcelle Padovani, che firma la prefazione al suo libro, dice che lei «disseziona i personaggi usciti dalla penna di Sciascia». Dal capitano Bellodi, «investigatore misurato», all’ispettore Rogas, coi suoi «criteri». Dall’infame Matteo Lo Vecchio, «tracotante e prevaricatore», al «brigadiere Lagandara» e la sua «storia semplice». Dal «Vice», sbirro «ideale» del Cavaliere e la morte, il penultimo romanzo, fino ad arrivare a reclutare investigatori ausiliari non «salariati» come l’insegnante Laurana di A ciascuno il suo e il pittore di Todo modo. A quale di questi è più affezionato?

«Mi ha sempre affascinato sondare cosa c’è fra l’arbitrio e la giustizia. E anche, in fondo, l’invito sciasciano a un modello di polizia delle investigazioni affidabile, nel senso di fedele vero lo Stato e senza padroni se non la legge. Ecco, in questo senso sono attratto dal capitano Bellodi de Il giorno della civetta. Uno che usa la testa, un democratico che non deraglia mai dalle regole e dalla legge nonostante ogni tanto vagheggi poteri forti, incisivi, speciali. Ma è un attimo, poi ricaccia indietro queste pulsioni».

Opera di Piero Baiamonte dedicata a Sciascia e alla Sicilia

Bellodi che poi nella realtà è stato Renato Candida, giovane capitano dei carabinieri piemontese in servizio ad Agrigento. Terra di mafia…

«Quando Sciascia che negli anni Cinquanta viveva a Racalmuto incontrerà Candida, secondo me comincia a maturare il pensiero di potere inventare uno sbirro servitore dello Stato che può anche significare non essere vicino al popolo, attenzione. Ma di cui ci si può fidare. Uno che “considerava l’autorità di cui era investito come il chirurgo considera il bisturi: uno strumento da usare con precauzione, con precisione, con sicurezza”, e senz’altro fine se non quello della giustizia e della verità. Il messaggio dell’affidabilità, appunto. Concetto che mi sono sforzato di rappresentare e di fare maturare nell’ultimo incarico che ho avuto prima della pensione come capo di tutte le scuole di formazione dell’Arma».

Dalla lettura del suo libro emerge una grande conoscenza della materia, uno studio approfondito non solo dell’opera di Sciascia. Ma forse è stato anche il mezzo per scandagliare se stesso, la sua vita di carabiniere, di fare un bilancio insomma. Lei, infine, chi è stato?

«Mi chiedo spesso se sono stato questo tipo di sbirro, alla Sciascia diciamo: affidabile, umano, generoso. Posso solo dire che ci ho tentato».

da Il Giornale di Sicilia – 17 novembre 2024

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