La recensione di Teresa Triscari al libro di Giuseppe Governale
“Sicilia, sicilianesimo, sicilitudine”; il sorriso enigmatico dell’Ignoto di Antonello da Messina; sbirri e “sbirritudine”; ricerca dell’essenza dei valori della Giustizia. Tutta una filigrana di linguaggi corre silente tra le pareti del Museo Mandralisca di Cefalù che di recente ha ospitato la presentazione del libro di Giuseppe Governale, “Gli sbirri di Sciascia”, pubblicato per i tipi della casa editrice Zolfo. Tutta una liaison di pensiero si snoda complice e sottesa tra l’ingegno poliedrico del barone di Mandralisca e la personalità composita e composta dell’Autore, “siciliano di scoglio” e non solo.
Ho trovato nel libro un insieme di spunti accattivanti e degni di nota forse perché ne ho iniziato la lettura proprio tra le auguste pareti di Palazzo Pirajno, sede del Museo Mandralisca; forse perché l’ironia misurata dell’Autore, Giuseppe Governale, si è legata e collegata a Sciascia e alla sua “sicilitudine” come “stato antropologico dell’essere siciliano”: una felice ibridazione di linguaggi tesi e sottesi tra un pensatore e un uomo d’azione.
Ne ho continuato la lettura a casa, occhieggiata dall’Ignoto che campeggia e troneggia sulla copertina del libro di Vincenzo Consolo del 1976, “Il ritratto dell’ignoto marinaio”, custodito nella mia bookcase insieme alle opere di Sciascia, di Consolo, di Bufalino, dell’amico Giuseppe Saja e a quelle che presto faranno loro giusta compagnia.
Credibilità, legalità, affidabilità sono i valori perseguiti da Governale, come ufficiale dell’Arma, come intellettuale, come uomo. La professione elevata a religione. L’excursus letterario-sociale-umano di Giuseppe Governale, diventa così un elemento che, partendo da Sciascia, approda alla ricerca di valori di carattere storico-sociale che coniugano degnamente cultura e professione.
– Si, i carabinieri sono sempre in due perché uno sa scrivere e l’altro sa leggere – chiosa Governale sorridendo sotto i baffi (è proprio il caso di dirlo) e ricordando la mitica barzelletta sui carabinieri che tutti amenamente conosciamo. Ma forse non tutti sappiamo che quei carabinieri, che a volte scrivono rapporti dalla grammatica incerta, non di rado documentano la verità, spesso affrontando situazioni difficili e psicologicamente logoranti di cui sono scomodi testimoni.
L’ironia composta del Nostro ci riporta a certe storiche analisi di Sciascia come quando, a proposito del concetto dei vincitori nei “Promessi Sposi”, ebbe a dire che il vero vincitore, alla fine, è don Abbondio che rimane sempre lì, a casa sua, mentre Renzo e Lucia sono costretti a emigrare e ad affrontare mille traversie.
Governale, condotto per mano da Sciascia, dalla sua compassata ironia, che fa tutt’uno con la sua capacità introspettiva, sente forte il bisogno di ricerca del metro della Giustizia in una società spesso contraddittoria e contorta per fare in modo che il vincitore non sia più don Abbondio ma chi si aderge contro gli arbitri.
E l’Ignoto è sempre lì, scrutante e ammiccante con il suo sorriso-ghigno. Mi guarda. «A chi somiglia l’ignoto del Museo Mandralisca? Al mafioso della campagna e a quello dei quartieri alti, al deputato che siede sui banchi della destra e a quello che siede sui banchi della sinistra, al contadino e al principe del foro…”somiglia”, ecco tutto».
Questa citazione sciasciana, accattivante e misteriosa al pari dell’Antonello, posta a epigrafe del libro, rimane lì, lapidaria, intrigante, muta testimone di realtà non sempre facili.
Ma a chi somiglia Governale? Ce lo dice lui stesso nella chiusa del libro. “A quale categoria di sbirro sono appartenuto? In particolare, sono poi stato uno sbirro nato? Non lo so con certezza; intimamente, con orgoglio, ma forse anche…con una certa tristezza… penso di sì”.
Sì, con l’orgoglio di essere paladino della “Benemerita”, di essere figlio d’Arte, di essere difensore dei valori di giustizia inculcatigli e additatigli prima di tutto dal Padre che, come lui, prima di lui, ha vestito la divisa dell’Arma. Ma anche con la tristezza di chi deve usare il potere, sia pure cum grano salis, per ristabilire ordine e dignità. Una felice sintesi di prodotti diversi. E qui, parafrasando il Catone della Divina Commedia: “Giustizia (libertà) va cercando che è sì cara come sa chi per lei vita rifiuta”.
Catone l’Uticense, assertore di quei valori di giustizia che aprono le porte della libertà, modello di vita austera e dignitosa. L’Autore, interprete dei principi di giustizia, “Nei secoli fedele”. Libertà e Giustizia/Verità e Affidabilità/Potere e Misura. Ossimori che si inseguono e susseguono, si accavallano e aggrovigliano in una sintassi di eleganza e correttezza.
Non è dato di sognare a chi ha “il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”. E’ proprio con questo aforisma di Kant che l’Autore inizia il suo excursus nei vari gironi della vita e della sua professione di Carabiniere. E la Sicilia, in tutti i suoi aspetti diversi e controversi, diventa “metafora del mondo”, come voleva Sciascia, in un’ermeneutica di linguaggi e prose dell’anima. Una grammatica di stile.
Che l’Autore si addentri in un girone dantesco (o, se vogliamo, sciasciano), ce lo dice lui stesso sin dalle prime battute: “un percorso di avvicinamento progressivo a Sciascia, il mio, come per cerchi concentrici”. Un percorso alla ricerca dell’affidabilità, della rettitudine, della Giustizia. Torna forte qui il concetto della mitica Antigone sulla legge scritta e non scritta, sulla legge degli uomini e sulla legge degli dei. E’ questo il concetto che il giudice imparziale dovrebbe forse perseguire, magari affiancando l’indagine con gli “appunti sgrammaticati dei carabinieri”. In un mondo dove “uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà” riescono a volte ad arrivare alle vette del potere politico dando vita a quella commistione tra mafia e politica di cui parlava Michele Pantaleone già agli inizi degli anni ’70; proprio in quel mondo dobbiamo cercare il nostro riscatto morale.
“Siamo uomini o caporali”? diceva l’intramontabile Totò che Governale spesso cita, non come espressione di comicità, ma come faccia di una lettura drammatica della vita, come emblema di pathos sociale.
Siamo uomini!