Un luogo che ha come obiettivo principale la diffusione della cultura italiana
C’è un luogo a New York che vale la pena visitare: è ”Casa Italiana Zerilli- Marimò” ubicata nel cuore del Greenwich Village. Un luogo quasi magico che ha come obiettivo principale la diffusione della cultura italiana, declinata in vari generi e settori, al di là dei confini nazionali. La Casa è parte della prestigiosa New York University. La storia di questo luogo nasce dall’ atto d’amore di una donna verso il proprio marito: la baronessa milanese Mariuccia Zerilli Marimò che, alla morte del coniuge Guido, imprenditore, diplomatico ed umanista decise di donare, dopo accurato restauro, la palazzina di famiglia sulla Dodicesima strada affinché si organizzassero concerti, proiezioni di film, conferenze e tutto quanto potesse diffondere e irradiare cultura italiana.
Abbiamo intervistato il professore Stefano Albertini che, dal 1998, dirige Casa italiana. Nato a Bozzolo, piccolo comune del mantovano, si è laureato in Lettere all’Università di Parma e dopo varie specializzazioni in atenei americani, tra cui il dottorato presso la Standford University in California è approdato alla New York University come docente di Letteratura italiana e cinema. Nonostante la sua vita si sia trasferita oltreoceano, un robusto filo lo unisce all’Italia dove è rimasta una parte del suo cuore e dei suoi affetti. Proprio questo sentimento riteniamo sia alla base della prolifica attività della Casa Italiana in cui si organizzano più di cento eventi all’anno tutti di grande spessore culturale e di elevata qualità.
Prof Albertini come riesce in questa impresa?
“Semplicemente facendomi trascinare dalla passione, dalla consapevolezza che l’Italia è uno scrigno prezioso di cultura, i cui tesori devono essere visibili e accessibili a tutti. Casa Italiana al cui interno c’è il Dipartimento di Italianistica dell’Università, insieme a docenti e studenti è una sorta di finestra sul mondo culturale e sulla città di New York che offre varie e spesso inedite vedute di una cultura italiana che raccoglie le varie diversità della nostra nazione stratificate nei luoghi e nei tempi. Le iniziative organizzate sono sempre aperte gratuitamente al pubblico, si prefiggono sempre alta qualità ma al contempo l’accessibilità e la comprensione a chi vive al di fuori del mondo accademico”.
Quanto ha influito la esperienza universitaria italiana nella sua vita americana?
“Io sono nato a Bozzolo e i miei genitori erano insegnanti e quindi dopo gli studi superiori per raggiungere l’università viaggiavo in treno, ogni giorno, da pendolare. Ricordo che quei viaggi insieme ad altri studenti e spesso anche insieme ai docenti erano momenti formativi importanti. Era importante lo scambio di opinioni, il dialogo, l’amore verso l’arte. In quegli anni, nacque la mia consapevolezza di voler fare qualcosa per espandere la cultura italiana nel mondo. Poi circostanze fortuite mi portarono in America. Io non avevo né il mito dell’America né sentimenti ostili verso quel pezzo di mondo. Ma quel ”nuovo mondo” mi stupì. Rimasi affascinato dalle biblioteche aperte 24 ore su 24, dalla possibilità di studiare arte, cinema, letteratura e approfondire la mia cultura, le mie passioni in un contesto meritocratico dove addirittura venivo pagato per fare ciò che desideravo profondamente. Passavo le mie giornate tra amici di varia provenienza, neri, ebrei, omosessuali e le diversità di origine, di cultura si fondevano in un flusso continuo di scambi di opinioni, modi di pensare, punti di vista: c’era un dialogo senza prevaricazioni dove sensibilità diverse non allontanavano ma arricchivano. Penso che questo sia lo spirito giusto per costruire un “mondo nel mondo” ed è quello che cerco di riversare appunto nella Casa Italiana”.
“Lei e la Casa italiana siete molto legati alla volontà di non dimenticare la tragedia della Triangle Shirtwaist Company dove il 25 marzo perirono 146 persone di cui 129 operaie. Fra queste ben 38 italiane. Ci vuole raccontare come è nato questo legame?
“Nel mio tragitto quotidiano per andare al lavoro passavo sempre sotto il grattacielo in cui si consumò la tragedia e ogni volta che leggevo la piccola targa apposta che ricordava quei fatti, sentivo un brivido correre per la schiena. A partire dal 2001 la Casa organizzò conferenze e celebrazioni per marcare l’anniversario e invitò i politici italiani a visitare il sito. Qualche anno dopo, un collettivo di donne, sindacalisti e attivisti decise di realizzare un memoriale degno per alimentare il ricordo di quel sacrificio. Si formò così un Comitato presieduto da Mary Ann Trasciatti, docente alla Hofstra University, con l’intento di realizzare una sovrastruttura ben armonizzata con l’edificio esistente che desse il senso non solo del dovere di ricordare quei fatti ma che fosse al contempo espressione di una tragedia corale. Inoltre, quel dramma collettivo doveva far emergere l’individualità delle vittime. Si bandì un concorso internazionale a cui parteciparono più di centocinquanta fra architetti e scultori. Fu scelto il progetto di Richard Joo e Uri Wegman che prevedeva di chiedere ai discendenti, ai sindacati, alle scuole e ad altre associazioni legate a quei fatti di portare ciascuno un simbolo materiale. Arrivarono così, foto, pezzetti di stoffa, di carta, distintivi e tanti piccoli oggetti collegati all’evento tragico. Questi oggetti furono tutti cuciti tra loro in un lungo nastro di stoffa che fu fotografato e riprodotto su un lungo nastro d’acciaio che adesso come un’onda avvolge l’edificio. Alla base del grattacielo una lastra di specchio in cui sono iscritti i nomi e l’età delle vittime. Chi visita il memoriale però non legge solo quei nomi ma contemporaneamente vede sé stesso dando il senso dell’attualità del passato che si fonde necessariamente con il presente della propria immagine. Ai due estremi del memoriale il racconto in inglese, in italiano e in yiddish, le lingue delle vittime. La realizzazione di ciò è stata resa possibile grazie al finanziamento del Governatore dello stato di New York Andrew Cuomo e di tanti donatori”.
Ci siamo recati, con il prof Albertini e gli artisti e le artiste della “Savatteri Produzioni” che ha realizzato il Musical “Camicette Bianche”, a visitare il Memoriale e possiamo confermare che quel lungo nastro d’acciaio ti avvolge emozionalmente come se non fossero passati più di cento anni e il tempo si fosse fermato per permetterti di riflettere e assimilare le tragedie e le ingiustizie antiche con quelle attuali. Quel nastro si trasforma in una strada, in un percorso che considera gli immigrati, a qualsiasi latitudine, una preziosa risorsa. Quel nastro pare indichi un cammino che, travolgendo stereotipi e steccati, possa migliorare l’intero Mondo