Il libro di Giuseppe Maurizio Piscopo, edito da Navarra, colma una lacuna editoriale, e restituisce un’immagine netta e progressiva di un uomo la cui lezione è presente e dialoga con noi
Dopo la famosa immagine di Danilo Dolci sul letto di un bambino morto per denutrizione, nel 1955 esce per i tipi di Laterza Banditi a Partinico, che fa conoscere all’opinione pubblica italiana e mondiale le disperate condizioni di vita nella Sicilia occidentale. Sono anni di lavoro intenso, talvolta frenetico: le iniziative si susseguono incalzanti. Il 2 febbraio 1956 ha luogo lo “sciopero alla rovescia”, con centinaia di disoccupati – subito fermati dalla polizia – impegnati a riattivare una strada comunale abbandonata. Con i soldi del Premio Lenin per la Pace (1958) si costituisce il “Centro studi e iniziative per la piena occupazione”. Centinaia e centinaia di volontari giungono in Sicilia per consolidare questo straordinario fronte civile, “continuazione della Resistenza, senza sparare”. Si intensifica, intanto, l’attività di studio e di denuncia del fenomeno mafioso e dei suoi rapporti col sistema politico, fino alle accuse – gravi e circostanziate – rivolte a esponenti di primo piano della vita politica siciliana e nazionale. Ma mentre si moltiplicano gli attestati di stima e solidarietà, in Italia e all’estero (da Norberto Bobbio a Aldo Capitini, da Italo Calvino a Carlo Levi, da Aldous Huxley a Jean Piaget, da Bertrand Russell a Erich Fromm), per tanti avversari Dolci è solo un pericoloso sovversivo, da ostacolare, denigrare, sottoporre a processo, incarcerare. Ma quello che e’ davvero rivoluzionario è il suo metodo di lavoro: Dolci non si atteggia a Maestro, non propina verità preconfezionate, non pretende di insegnare come e cosa pensare e fare. E’ convinto che nessun vero cambiamento possa prescindere dal coinvolgimento, dalla partecipazione diretta degli interessati. La sua idea di progresso non nega, al contrario valorizza, la cultura e le competenze locali. Diversi libri documentano le riunioni di quegli anni, in cui ciascuno si interroga, impara a confrontarsi con gli altri, ad ascoltare e ascoltarsi, a scegliere e pianificare. La maieutica cessa di essere una parola dal sapore antico sepolta in polverosi tomi di filosofia e torna, rinnovata, a concretarsi nell’estremo angolo occidentale della Sicilia. Negli anni Settanta, naturale prosecuzione del lavoro precedente, l’impegno educativo assume un ruolo centrale: viene approfondito lo studio, sempre connesso all’effettiva sperimentazione, della struttura maieutica, tentando di comprenderne appieno le potenzialità. Col contributo di esperti internazionali si avvia l’esperienza del Centro Educativo di Mirto, frequentato da centinaia di bambini. Il lavoro di ricerca, condotto con numerosi collaboratori, si fa sempre più intenso: muovendo dalla distinzione tra trasmettere e comunicare e tra potere e dominio, Dolci evidenzia i rischi di involuzione democratica delle nostre società connessi al procedere della massificazione, all’emarginazione di ogni area di effettivo dissenso, al controllo sociale esercitato attraverso la diffusione capillare dei mass-media; attento al punto di vista della “scienza della complessità”, propone “all’educatore che è in ognuno al mondo” una rifondazione dei rapporti, a tutti i livelli, basata sulla nonviolenza, sulla maieutica, sul “reciproco adattamento creativo”.
Orbene, da una biografia simile – necessariamente sintetica, ma compiuta – e dal percorso di un uomo come lui, rarissimo caso di intellettuale umanista che praticava tutte le arti senza sciocche distinzioni, sapendo d’essere poeta perché pedagogo, e uomo d’azione perché uomo di pensiero, è possibile che qualcuno ci abbia nascosto Danilo Dolci? Se lo chiede provocatoriamente Giuseppe Maurizio Piscopo, senza formule dubitative. Il titolo del suo libro è bellissimo perché ha il dono della chiarezza, e non infinge il discorso nella maschera di una difficoltà sviante. Piscopo si è accorto che Danilo Dolci ci è stato nascosto, e ce lo dice dimostrando una tesi che scopre qualche verità sull’illustre sociologo trapiantato nella Sicilia silenziosa e assorta del latifondo. Danilo Dolci ha finito per essere un caso eclatante di rimozione dal patrimonio della coscienza collettiva, con ancora più vergogna per la Sicilia che ne ha dimenticato il nome. Le ragioni sono tante, e Piscopo le conquista al suo discorso e le accenna con lunghi tratti d’analisi. Dolci era un irregolare, in fondo, e in Italia gli irregolari non sono mai piaciuti, sfuggendo al desiderio rassicurante di una tassonomia burocratica del sapere; di più, aveva un coraggio insolito, una incomprensibile mancanza di interessi egoistici, e non spense mai il proprio lavoro sulla presunzione del credito intellettuale. A ciò si aggiunga la strana vicenda dei suoi seguaci, spesso litigiosi e in contrasto fra loro, che hanno saputo solamente dimostrare che Danilo Dolci non ha avuto seguaci. E chi mai avrebbe potuto essere lui, sapendo di non esserlo? Al fanatismo di chi è rimasto, le pagine di Danilo Dolci lasciano la grazia del dubbio, e Giuseppe Maurizio Piscopo compie un lavoro prezioso e utilissimo per chi non conosce Dolci e per chi lo ama e lo legge, dimostrando che in certe apparenti accidentalità che ne hanno distratto la figura c’era in realtà un discorso pervicace di nascondimento dell’opera del grande maestro triestino, e un libro simile colma una lacuna editoriale e, soprattutto, restituisce un’immagine netta e progressiva – cioè non retorica, inerte, mortuaria e inutile – di un uomo la cui lezione è presente e dialoga con noi, e sta a noi avere la curiosità di andare oltre ciò che ci hanno nascosto di Danilo Dolci per averne al tempo presente una lezione di grande coraggio civile che è possibile fare con le armi della tenerezza, attraverso la poesia. Piscopo lo ha fatto, e leggere le sue pagine equivale a seguirne l’esempio.