Fondato a Racalmuto nel 1980

Lo zio Vittorio

“Certi fantasmi ti corrono dietro anche quando gli volti le spalle”. L’editoriale di Franco Carlisi su Gente di Fotografia. 

Mio zio Vittorio era fascista. Utilizzo il verbo all’imperfetto non perché, nel frattempo, abbia cambiato fede, ma semplicemente perché, nel frattempo, è morto. Certi fantasmi ti corrono dietro anche quando gli volti le spalle.

Del credo di zio Vittorio, mia nonna parlava con lo stesso tono con cui si parla del gatto del vicino o della pioggia che non arriva mai. L’essere fascista era per lei un tratto del carattere, qualcosa di ereditato, come le orecchie a sventola o l’abitudine di soffiare sul caffè prima di berlo. E non aveva torto.

Tra le mura della casa materna, invece, gli altri componenti della famiglia non ne parlavano mai ad alta voce. Le parole si incastravano tra i denti di mia madre, come se pronunciarle potesse evocare qualcosa di irreparabile, un’ombra densa capace di risalire dai muri umidi della casa e sedimentarsi sui mobili, sui piatti, sui respiri, spezzandoli. Era una colpa senza redenzione, un silenzio stratificato che impregnava ogni racconto della famiglia, la prova della fragilità e dell’ambiguità dell’identità familiare. Così lo zio Vittorio divenne, per merito, “la pecora nera della famiglia”. E mai epiteto fu così azzeccato, sia per il colore sia per l’attitudine dell’ovino, che tutti sappiamo.

Negli anni ’80, il fascismo, sconfitto da tempo nella guerra, sopravviveva nella mia famiglia in una fotografia appesa a sentinella nel grande salone dall’odore di tabacco stantio dello zio Vittorio. Il giovane Vittorio marziale, il mento sollevato, il braccio teso, la camicia senza una piega e una piega sottile negli occhi, stigma di chi crede di avere ragione anche quando non ce l’ha. La si poteva “ammirare” solo nei giorni in cui i rapporti con la zia Marina, sua moglie, non erano burrascosi. La zia Marina, modi gentili e una voce che sapeva ammorbidire ogni situazione, non sempre riusciva a far ragionare l’ostinazione bovina dello zio. E di fronte a questa impossibilità considerava modesto risarcimento, in quelle circostanze, girare contro il muro la fotografia del fascista.

Ai miei occhi di ragazzo, zio Vittorio appariva, usando un eufemismo, “un po’ fascista”, con la battuta infelice sempre pronta: inconfondibilmente fuori luogo, ironicamente tragica. E fondamentalmente incapace di nuocere. Era un uomo alto, con mani grandi e una voce profonda che sembrava scendere di un’ottava quando tuonava per difendere simulacri di oppressione e d’ingiustizia adeguatamente sconfitti dalla storia. Per questa ragione, guardavo il suo ritratto come un simbolo grottesco e surreale, un’icona della mia personale tragedia familiare, in cui l’ignoranza e il disagio si travestivano da fede politica, replicando un rituale quasi comico, per quanto inquietante.

Non mi rendevo conto che quel ritratto evocava una tragedia del Novecento con tutto il suo carico di memoria e di dolore. E non c’era nulla che potesse giustificare il mio tentativo di redenzione.

Benché la storia non si possa cambiare, si può di certo imparare. Non era il caso di Vittorio: lui restava lì, incastonato nella sua fotografia, nel suo gesto immobile, nel suo tempo immutabile. Ma la sua non era fermezza ideologica, quanto una pulsione regressiva che lo catapultava in un’ignoranza primitiva: una sorta di stato di natura in cui la violenza, la sopraffazione e il sopruso diventavano strumenti legittimi per fronteggiare il disagio personale, la paura, l’insicurezza, il bisogno di appartenenza. Il fascismo aveva dunque una ragione nella sua natura atavica.

Tuttavia, è ingenuo pensare che si manifesti soltanto perché alcuni individui cedono a pulsioni di violenza e di dominio. Il fascismo si sviluppa e si rafforza in contesti in cui esiste una convergenza tra quegli impulsi umani primordiali e specifiche condizioni storiche, economiche e sociali che li legittimano. In questa saldatura tra disagi personali e dimensione psicologica e sociale della paura, dell’incertezza e del malcontento, il fascismo riesce a portare in superficie la “bestia” che si nasconde nelle pieghe dell’animo umano.

Una tale interpretazione, di matrice – per così dire – antropologica, permette di comprendere il fascismo non tanto come fenomeno politico confinato a un luogo o a un periodo, bensì come possibilità costante, riattivabile ovunque le circostanze la favoriscano. Al fascismo non serve un’ideologia con la sua radice storica, si nutre di rituali, immagini e simboli che evocano una connessione primordiale con la forza e il dominio.

Le immagini fasciste, infatti, non sono mai innocue; sono costruite per evocare emozioni specifiche: paura, ammirazione, soggezione. Il saluto romano, con il suo braccio teso verso l’alto è una dichiarazione ontologica: l’individuo che si dissolve nel corpo collettivo, che si proietta verso un potere verticale e omologante. La fotografia, in questo contesto, è un dispositivo di costruzione del mito, non soltanto cattura i simboli, ma li amplifica, li distilla, li fissa in un immaginario collettivo in cui il dissenso è impensabile. È il medium del potere che trasforma il gesto in rito, l’immagine in dogma. È estetica che si fa politica, un dominio che si manifesta nel visibile, lasciando l’invisibile –il pensiero, la critica, il dubbio – completamente escluso.

Avevo rimosso il saluto romano dello zio Vittorio sacralizzato in quel ritratto quando, in questi giorni, incredibilmente e inconsapevolmente arriva l’uomo più ricco del mondo a riportarlo alla mia memoria. Mi riferisco, naturalmente, al controverso saluto romano attribuito a Elon Musk e alla pletora di indignazione che questi ha generato. Che si sia trattato di un gesto nostalgico o di un malinteso, lo scopriremo presto. Quello che mi pare importante e sorprendente è il potere evocativo di quel gesto, la sua capacità di riaprire ferite che si credevano rimarginate.

Che cosa succede, dunque, quando determinati simboli si spostano dal dominio politico e ideologico a quello economico e tecnologico che Musk rappresenta? Il rischio è di normalizzare o estetizzare gesti storicamente legati all’autoritarismo.

Quando il potere economico e tecnologico, infatti, si appropria di simboli del passato, li svuota del loro significato, li decontestualizza e banalizza, in modo che perdano la loro funzione di monito, trasformandosi in strumenti di spettacolo o di marketing.

In questo contesto, il simbolo perde la sua carica esplicitamente autoritaria per assumere una forma più sottile e pervasiva. Il saluto come un atto collettivo, come rituale che cancella le differenze individuali per fondere i partecipanti in un corpo unico al servizio del regime non è più fondamentale.

Il potere tecnologico ed economico non ha bisogno di adunate di massa. La folla è già connessa, sincronizzata e direzionata dai dispositivi che porta in tasca.

I nuovi strumenti di controllo sono da ricercare nell’algoritmo che decide cosa vediamo, nell’interfaccia che ci guida verso certe scelte di consumo. Questo nuovo potere non obbliga con la forza, ma convince e dirige. Le piattaforme sociali, attraverso tecniche di persuasione subliminale e design comportamentale, modellano le nostre interazioni e preferenze senza la nostra consapevolezza. Ci avviamo verso un mondo di automi senza desideri autentici, né ideali né disobbedienza. Neanche il fascismo avrebbe ambito a tanto.

Tutto questo crea un nuovo paradigma di potere, basato non sulla coercizione esplicita ma sul condizionamento sistematico. Come nel fascismo questo potere non ha ideologie di riferimento e si avvale di immagini.

In questo contesto, la fotografia assume un ruolo cruciale come veicolo simbolico e strumento di potere. Nell’era fascista, le immagini erano utilizzate per glorificare il regime, immortalando folle oceaniche, leader carismatici e costruire una narrazione visiva di potere assoluto.

Nello scenario contemporaneo, la fotografia continua a svolgere una funzione analoga, ma in modi più sottili e pervasivi. Le piattaforme sociali sono sature di immagini che filtrano la realtà, la estetizzano e la manipolano. Ogni fotografia condivisa diventa parte di un flusso visivo costante, in cui l’individuo partecipa alla costruzione di simboli e miti contemporanei. Le immagini curate e ritoccate non sono più soltanto espressioni personali, ma strumenti di una narrazione collettiva, guidata dagli algoritmi che selezionano cosa mostrare e a chi.

I volti immortalati, i luoghi fotografati e i momenti condivisi alimentano enormi archivi digitali utilizzati per tracciare e analizzare i comportamenti degli individui. L’immagine non è più soltanto memoria, ma dato. Ogni nostra azione digitale viene trasformata in una merce. I dati personali diventano la materia prima di un mercato opaco, in cui le informazioni vengono raccolte, analizzate e vendute per prevedere e influenzare i comportamenti futuri.

Tutti noi pensiamo che la finalità del social network sia quella di trasformarci in consumatori docili e fiduciosi; invece, ci trasforma anche in docili sudditi perché erode la nostra capacità critica.

Mi rendo conto che zio Vittorio e Elon Musk, questa volta, hanno travolto ogni mia resistenza. Ho pensato però che le omissioni sono imperdonabili e il silenzio non è più un’opzione. Anche perché basta una conversazione al bar per percepire un’inquietudine condivisa da tanti.

Avverto una nostalgia diffusa per un tempo in cui eravamo capaci di sognare insieme. Un tempo in cui si credeva fermamente nella possibilità di trasformare la società, di costruire un futuro che illuminasse le nostre vite. Oggi, ogni promessa di cambiamento si dissolve in un grigiore che invade ogni angolo della nostra quotidianità. La narrazione collettiva del nostro tempo è in crisi.

Franco Carlisi
Franco Carlisi

In questo panorama morale e sentimentale si percepisce una tensione: l’amarezza, la frustrazione e un generale senso di smarrimento che sfida la logica del progresso.

I rapporti umani vengono rimpiazzati dall’approvazione superficiale espressa da un like. Viviamo  all’interno di un sistema che alimenta una cultura del narcisismo, in cui l’immagine personale viene continuamente costruita, smarrita e ricostruita per attirare l’attenzione di un pubblico già orientato. Non c’è spazio, quindi, per l’autenticità quanto piuttosto per una comunicazione frammentata e superficiale, che porta inevitabilmente alla solitudine e alla frustrazione.

Questo individualismo, in cui l’uomo stenta a riconoscere se stesso, cancella la possibilità di un orizzonte condiviso di libertà, di democrazia e di benessere e ci rende sempre più soli di fronte a paure e a disillusioni.

Sono queste le condizioni che predispongono al ritorno della “bestia”.

In tali circostanze, il personaggio che promette ordine e prosperità, anche se è “un po’ fascista”, raramente incontra resistenza immediata: il suo potere cresce perché affonda nel terreno fertile nelle paure di chi lo circonda e in un’economia che trova nel potere autoritario un alleato piuttosto che un ostacolo. L’autoritarismo non si impone sempre con un colpo di stato o con la violenza diretta: spesso si insinua lentamente, normalizzando l’ingiustizia, erodendo le libertà passo dopo passo.

Per fortuna, la stessa tecnologia che ci dirige può essere uno strumento di resistenza e salvaguardia della democrazia. Le immagini non mediate dai canali istituzionali possono scuotere le percezioni e risvegliare la coscienza critica. La fotografia possiede un potenziale emancipatorio: la capacità di documentare eventi in tempo reale e di diffondere immagini attraverso reti digitali permette di sfidare la narrativa ufficiale. Le fotografie che mostrano ingiustizie sociali, manifestazioni di dissenso o momenti di solidarietà collettiva possono diventare catalizzatori di cambiamento. In questo senso, l’uso consapevole della fotografia si trasforma in un atto politico: diventa strumento per recuperare l’autenticità della realtà. L’atto di scattare e di osservare un’immagine, infatti, produce senso, alimenta il pensiero, crea legami. È un lavoro sulla realtà che non si misura in termini di profitto materiale, ma di crescita interiore e relazionale. Lontana dall’addestrare persone a comportamenti standard o a limitarsi a consumare, la fotografia offre uno spazio di libertà in cui chiunque può “uscire da sé” e incontrare l’altro, nella forma di un volto, di un paesaggio o di un frammento di vita.

E chissà, magari, nel raccontare l’altro, nel trasmettere le nostre speranze come un’eredità preziosa, potremo riscoprire il calore di un incontro, la bellezza della fragilità umana.

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