La recensione di Stefania La Via al libro di Bia Cusumano Itaca Ebbra
Di
Stefania La Via
Tengo tra le mani il volumetto di poesie Itaca Ebbra di Bia Cusumano, uscito per le edizioni Interno Libri lo scorso febbraio, e sento tremare qualcosa sotto le dita, il ribollire di un magma sotterraneo che erompe bruciante non appena sfoglio le pagine e scorro con gli occhi i versi che emergono dal bianco mare dei margini come isole remote di un arcipelago mitico.
Penso a Ciò che resta (titolo di una delle due sezioni del libro), a ciò che la parola della poesia riesce a trattenere, minuti dettagli, oggetti concreti, sensazioni, frammenti di vita impigliati nella rete a maglie sottili della memoria. Eppure il potere dell’amore, ci dice l’autrice, è la dimenticanza. Se ci scordiamo dell’altro lo annulliamo, lo dissolviamo. L’amore è nella forza e nella volontà di trattenere, nonostante tutto, sta racchiuso in quel nodo che non vogliamo sciogliere. Nanni Balestrini definiva la poesia come “emozione intellettuale”, spazio paradossale di una durata inavvertibile. Lo stesso principio che mostra gli oggetti finisce poi per cancellarli se lo sguardo li indaga e li percorre a ritroso.
È parola visiva quella di Bia Cusumano, che ha il potere di rendere tangibili le emozioni, di trasformare l’inafferrabile in termini che risuonano come un’eco lontana. È parola che si fa “sostanza dell’espressione”: è ritmo, suono. Ti trascina nel suo vortice di sentimenti, e lo fa in modo quasi fisico, carnale, è visione e ossessione, “sigillo” che chiude e custodisce nel segreto ma anche “spada” pronta a combattere, inarrestabile.
«Ho dovuto scegliere: / appartenere o abdicare, / custodire o rinunciare.»
Proteggere l’amore, nonostante tutto, quell’amore-veleno che inebria ma sa anche annientare, o rinunciarvi per sempre dopo aver attraversato un percorso lastricato di spine e di illusioni infrante? Cantare l’amore è cantare la passione e allo stesso tempo la disillusione, l’attesa sfibrante, il dolore del rifiuto.
L’identità tra vissuto e scrittura è in Bia Cusimano molto forte, la poesia è sangue che scorre nelle vene, fondamento e sostanza dell’esistere:
«Non sai che le parole / mi hanno salvato / dai chiodi nelle viscere. / Sono stata libera / tra virgole e punti[…]/ Così sono risorta / dalle mie stesse ceneri.»
La forza della scrittura è energia vitale che aiuta a risollevarsi da ogni crollo, da ogni caduta, a risorgere dalle proprie ceneri come un’araba fenice.
«Le parole m’hanno abitata / m’hanno sfamata e respirata. / Se ancora vivrò, avrò / parole ad attendermi. / Se morirò, parole / mi chiuderanno gli occhi.»
Una versificazione piana, priva di artifici, che anzi rifugge per scelta dalla retorica in quanto mossa da un’urgenza del dire che è urgenza di vita, fame d’amore e di dolcezza capace di curare le ferite. Una lingua poetica chiara, che ha dissolto le sue ombre e chiede a sua volta luce, illumina i nodi irrisolti, li racconta, e nel farlo li stana, ne svela le contraddizioni:
«Nessun uomo mi ha abitata a fondo: / tanti hanno potuto starmi accanto, / davvero nessuno dentro. / Io vivo le trincee, i confini, gli squilibri.»
La voce dell’autrice ci sussurra che siamo creature al margine, attraversate da correnti, energie, percezioni. La scrittura richiede dedizione, è abbandono e allo stesso tempo scelta consapevole, vocazione e destino. È incisa sulla pelle, come lettere marchiate a fuoco.
Quanto più il nostro desiderio è contenuto o frustrato tanto più scriviamo, chi è felice non scrive, vive.
«Non si nasce se non dal dolore, / non si dona se non per mancanza, / non si cerca l’acqua se non per l’arsura.»
Chi scrive è mosso dal nostos, il dolore indefinibile e sottile di ciò che sempre manca e che si continua a cercare in una spirale senza fine. La scrittura è l’isola da cui la poeta parte per i suoi viaggi di senso e a cui approda, per ripartire nuovamente. Itaca, archetipo di ogni ritorno e partenza di ogni viaggio, è forse la poesia, baricentro e punto d’equilibrio a cui l’autrice torna ad ogni nuova delusione, unendo in sé l’attesa paziente di Penelope e la perenne insoddisfazione che muove Ulisse.
Ognuno di noi ha la sua Itaca: un’idea, un valore, uno stato d’animo, un traguardo da raggiungere. Itaca, quindi, può cambiare nella vita di ciascuno, evolversi con il tempo.
L’amore è slancio vitale, per questo è ineluttabile amare anche chi non ci ama, desiderare con tutto il cuore qualcosa che sfugge. Perché è proprio il suo essere sfuggente che lo rende tragicamente desiderabile.
L’ultima sezione del volume è quella che dà il titolo all’intera silloge. Poche, intense liriche, nelle quali «L’assenza ha sradicato le parole», in un viaggio in cui «nessuna torcia illumina la rotta» e il canto «è solo memoria» di una perduta felicità.
L’addio si rovescia in ritorno, Ulisse è senza volto e senza nome, incarnazione degli amori passati e futuri destinati a essere di passaggio, a spiegare le loro vele mendaci verso il largo, mentre Penelope continua a tessere la sua tela di parole d’amore, a ricominciare a ogni giro di giostra a ricucire le ferite e a danzare nuda sulle macerie di ciò che è stato o avrebbe potuto essere.
Lei resta, a lei soltanto appartiene Itaca, perché «[…] così è l’amore. / Possiedi solo / ciò che attendi».
In fondo, lo sappiamo, «Chi non sa restare, non sa appartenere».
La poeta, vestale dell’amore e della Poesia ha appreso l’inviolabile segreto, sa come mantenere intatti i sogni, sa come trattenere ma soprattutto come lasciar andare. Muove avanti e indietro la spola, tesse con pazienza la sua trama di parole. Ha fatto propria la grande lezione che Margherita Guidacci ha espresso nei suoi Consigli a un giovane poeta:
«Obbedisci all’azzurro, dimentico di chi ciancia presso il tuo nido di terra:
L’azzurro e chi è sopra l’azzurro sanno bene perché ti hanno chiamato.»