Fondato a Racalmuto nel 1980

“La poesia è abitare una ferita”

Conversazione con Daniele Ricardo Vaira, poeta e giornalista che ha sempre vissuto tra la parola scritta e il bisogno di trovare in essa un varco

Daniele Ricardo Vaira

Poeta e giornalista professionista freelance torinese-costaricano, per cinque anni alla Gazzetta dello Sport, laureato in Scienze della Comunicazione e Relazioni Internazionali, Daniele Ricardo Vaira ha sempre vissuto tra la parola scritta e il bisogno di trovare in essa un varco, una possibilità di senso. La sua poesia è una forma di resistenza al presente, uno scavo che attraversa il dolore senza edulcorarlo.

Con La luce per l’inverno (Arcipelago Itaca), vincitore della decima edizione del Premio editoriale Arcipelago Itaca, Vaira costruisce un percorso che non segue solo una linea tematica, ma anche una progressione luminosa: dal bianco degli amori alla stagione dei viaggi, passando attraverso l’arancio della follia fino al nero della violenza e della memoria. Un viaggio che diventa anche testimonianza del presente, con una poesia che si confronta con la cronaca, le guerre, il senso della perdita e della trasformazione.

Il titolo ‘La luce per l’inverno’ gioca su un’ambivalenza. Quale significato volevi dargli?

“Mi interessava lavorare su una luce che non fosse rassicurante. ‘Luce per’ può indicare sia un bagliore che aiuta a orientarsi nel gelo, sia la luce dell’inverno stesso: fredda, tagliente, capace di rendere le ombre più nitide. È una luce che sottrae piuttosto che aggiungere. Nella sottrazione restano le cose essenziali. Spesso il dolore ha questa stessa funzione: spoglia tutto ciò che è superfluo. Come scrive Cioran, un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve allargarle. La poesia, se è autentica, non chiude le ferite, le rende visibili!”.

Hai dedicato il libro ‘a chi trema e resta gentile’. Cosa significa per te questa frase?

“È una dedica a chi attraversa le difficoltà senza diventare cinico, senza lasciarsi deformare dal dolore. Restare gentili non significa essere deboli, significa avere il coraggio di non perdere la propria luce. Viviamo in un’epoca in cui la durezza viene spesso scambiata per forza, e invece credo che la vera forza sia quella di chi sa tremare, di chi sente, di chi non smette di credere nella possibilità di qualcosa di diverso”.

Nel libro i dettagli minimi si trasformano in simboli. Come nasce questo processo?

“Non credo che la realtà vada trasfigurata, va semplicemente osservata con più attenzione. Gli oggetti, le cose di tutti i giorni – una sigaretta consumata, un biglietto obliterato – hanno già in sé una loro carica di significato. Derrida ci insegna che ogni scrittura è il segno di qualcosa che non è più presente, una traccia. La poesia lavora su questa traccia, la raccoglie e la rende viva. Non è un modo per recuperare ciò che è stato perso, ma per farlo risuonare nel presente”.

La struttura del libro segue un percorso cromatico, dal bianco al nero. Cosa rappresentano questi passaggi?

“Il bianco è la sospensione, il silenzio prima della frattura. Poi arriva l’arancio, che è il colore della follia, dell’eccesso, della vertigine. E infine il nero: la violenza, la perdita definitiva. Ma dentro il nero c’è sempre una resistenza, una luce che non si spegne del tutto. È la stessa tensione che attraversa la vita: si cade, si attraversa il buio, si prova a non smarrirsi. La poesia è questo spazio di lotta”.

C’è una sezione della raccolta dedicata alla figura materna. Che importanza ha avuto tua madre nella tua scrittura?

“Fondamentale. Mia madre mi ha insegnato la forza del racconto. È stata lei a spingermi a scrivere, a farmi capire che la parola poteva essere un luogo in cui stare, in cui trovare rifugio ma anche strumenti per affrontare la realtà. Le poesie della sezione Bisbigli di rosa sono il mio modo per restituire qualcosa di quel legame. Non è solo memoria, è un dialogo che continua. La poesia, in fondo, è sempre un modo per trattenere ciò che rischia di svanire”.

Il dolore è una presenza costante nella tua poesia. Pensi che la sofferenza sia necessaria per la scrittura?

“Non credo che la sofferenza sia necessaria, ma è inevitabile. Byung-Chul Han parla di una società senza dolore, che tenta di eliminare ogni forma di sofferenza in nome di un’esistenza semplificata e produttiva. Ma il dolore è parte della vita, e negarlo significa perdere una parte di noi stessi. La poesia non è un antidoto, non guarisce, ma abita la ferita. E in questa abitazione, qualcosa si trasforma. Non si tratta di cercare il dolore, ma di non sottrarsi ad esso, di attraversarlo fino in fondo per vedere cosa c’è oltre, spesso una forma di verità più autentica”.

Da cosa nasce la tua scrittura? Ci sono elementi ricorrenti che influenzano la tua creatività, come l’attualità, la musica, i dettagli quotidiani?

“Molto spesso la poesia nasce da un ritmo prima ancora che da un’immagine. A volte è una frase sentita per caso, altre volte è una melodia che resta in testa e chiede parole per esistere. Ma anche i dettagli minimi – un odore, un rumore, la luce che cambia su un volto – hanno un peso enorme. Ho uno sguardo molto fotografico: catturo istanti, frammenti di realtà che poi sedimentano e riemergono nei versi. Anche l’attualità entra in questo processo, perché viviamo immersi nelle cose, nei conflitti, nelle voci del presente. La poesia per me è questo: un incontro tra ciò che accade fuori e ciò che si muove dentro, tra la memoria e l’istante”.

Viviamo nell’epoca della distrazione continua. La poesia può ancora svegliarci?

“Jianwei Xun parla di Ipnocrazia, un sistema in cui la distrazione è diventata una forma di controllo, siamo ipnotizzati, bombardati da continui stati di coscienza alterati. Non ci viene chiesto di pensare, ma di reagire velocemente, di consumare contenuti senza sedimentarli. La poesia è l’opposto di questo. Non ha un ritmo imposto, non produce un risultato immediato, non ha una finalità, né un ritorno economico. Costringe a rallentare, a restare su una parola, su un’immagine. È un atto di resistenza contro l’anestesia collettiva”.

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