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Favara, l’uovo di Pasqua e la Spartenza

Un racconto di Giuseppe Piscopo dalla città che vive la Pasqua con intensità, e con riti che si tramandano da secoli

Giuseppe Piscopo

Il signor Totò e sua moglie Carmela sistemarono con cura il pacchetto sul bancone del centro di spedizioni vicino alla Strata Nova. Dentro c’era un uovo di Pasqua al latte, scelto con attenzione al supermercato che c’è vicino al Supercinema, dopo aver ricordato che al nipote Salvatore, da piccolo, il fondente non piaceva. Non era solo cioccolato: era un pezzo di casa, un abbraccio incartato nella carta lucida dorata.

L’addetto lo guardò e chiese distrattamente: «Dove va?»

«Milano», rispose nonno Totò con voce bassa, come se quel nome pesasse sul cuore. Poi aggiunse, quasi per se stesso: «Spedizione da Favara, città dell’Agnello Pasquale…e della Spartenza»

Favara, la sua terra. La città famosa per il suo dolce di pasta di mandorle e pistacchio, dei dolci di zio Nino e di zio Nello, ma anche per la sua Pasqua vissuta con intensità, con riti che si tramandavano da secoli. Riti che Salvatore non aveva più visto, perché da anni non c’era al Venerdì Santo. Prima da universitario, poi da apprendista precario, adesso da dipendente.

Milano. Troppo lontana per essere raggiunta in macchina senza stancarsi, troppo cara per tornarci in aereo con Ryanair, senza sacrificare la misera pensione. Salvatore era partito dopo il diploma per studiare al Nord e ritornarci dopo la laurea, come tanti. «Solo per un po’, nonno» aveva detto. Ma il tempo passava e i ritorni si diradavano. Niente Natale, niente Pasqua. «I voli costano troppo, Catania in autobus è lontana, troppe deviazione nell’ autostrada incompiuta. E poi ho molto lavoro», spiegava sempre.

Nonna Carmela ricordava al marito le Pasque di quando Salvatore era bambino. Il Venerdì Santo si andava al Calvario, la collina sacra dove la folla si radunava per assistere ai momenti della Passione e l’omelia di Don Diego. E la notte, la Spartenza: il momento più straziante, quando in Piazza vicino al Monumento dei Caduti, il simulacro della Madonna Addolorata e quello del Cristo si separavano, in un dolore che sembrava spezzare il cuore di tutto il paese: dei credenti che seguivano l’Urna e dei bestemmiatori che passeggiavano credendo di stare ad una festa.

Favara, foto di Salvatore Giglia

E poi la domenica, la rinascita. La campana della Madrice suonava a festa, come quella di San Franci e dell’ Itria e la gente si riversava nelle strade con il vestito nuovo, e il giorno dopo, tutti in campagna, da Ramalia a Rineddra,  per il Pasqualuni, tra arrosti, risate e bicchieri di vino che si riempivano senza bisogno di parole. La famiglia era lì, tutta insieme. A giocare con le mazze, ad infornare cuddriruna, a raccontare storie antiche, a sparlare i vicini. Ora, invece, la casa sembrava più grande, più vuota.

L’addetto pesò il pacco e lesse il prezzo della spedizione. «Caro pure questo» commentò.

Nonno Totò annuì, senza dire nulla. La distanza aveva un costo, ma certi gesti non avevano prezzo. Pagò, poi rimase a guardare mentre l’addetto sistemava il pacco tra gli altri. Chissà quanti altri nonni avranno fatto lo stesso, spedendo non solo cioccolata, ma pezzi di cuore.

Uscirono nel sole tiepido di questo venerdì mattina e presero la strada verso casa, direzione Cavato. Mentre camminava per il paese silenzioso, il nonno pensò a quando Salvatore avrebbe aperto l’uovo. Con dentro non la sorpresa desiderata da bambino, ma due pezzi dei cuori dei nonni. Forse avrebbe ricordato il Calvario, la Spartenza, il profumo della sua terra. E chissà, magari il prossimo anno troverà il modo di tornare.

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