Fondato a Racalmuto nel 1980

“Deinòs”

Il racconto di Marta Reder vincitore della ottava edizione del Concorso letterario nazionale “Raccontami…o Musa”

Marta Reder

Deinòs è il racconto di Marta Reder vincitore della ottava edizione del Concorso Letterario Nazionale “Raccontami, o Musa”, bandito dalla Associazione culturale Musamusìa di Licata, presieduta da Lorenzo Alario, in collaborazione con la testata giornalistica online Malgradotuttoweb. Direttrice artistica del Concorso letterario la prof.ssa Angela Mancuso. Presidente della giuria Raimondo Moncada

Deinòs 

di Marta Reder 

Un passo e poi un altro, come ho sempre fatto. Eppure non è mai stato così difficile. La fune sospesa sul nulla sguscia via e si sottrae al contatto con i miei piedi, come fosse una creatura viva, con una propria volontà. A stento riesco a mantenere l’equilibrio e a proseguire. Tuttavia, nemmeno le gambe mi obbediscono e, dopo enormi sforzi, mi ritrovo al punto di partenza, come se non mi fossi mai mossa, più stanca e sfiduciata di prima, mentre le vibrazioni della fune mi ronzano nelle orecchie, come uno sciame di risatine beffarde. Stringo i pugni, cercando di ricordarmi come si respira. E mentre la tensione mi irrigidisce e la fune oscilla allegramente e la nebbia s’infittisce e si appesantisce, piombandomi addosso, la saetta di un pensiero improvviso rischiara per un istante la mia mente. E se mi lasciassi cadere…? Perché no…? Quanto sono stanca di stringere i denti, di tentare invano di proseguire, quando ogni elemento sembra essermi avverso… A volte le risposte arrivano da sole, in un attimo. A volte, più ci si sforza di districarle dalla bruma lattiginosa dei propri pensieri e di decifrarle, più queste si allontanano, confondendosi nel nulla cieco dell’ignoto.

Allora mi abbandono, come una marionetta a cui siano stati tagliati i fili.

Precipito, e l’orizzonte fatto di niente collassa.

Precipito, e vortici di nebbia avvolgono il mio corpo, giocando a rincorrersi tra i miei capelli. Precipito, e non ho paura: un forte silenzio mi pervade, come se fossi solo spettatrice.

Sono immersa in un vuoto a cui non so dare un nome, fluttuo nella claustrofobica vastità dell’infinito.

Precipito.

Mi aspettavo di perdere coscienza di me stessa, di non ritrovarmi più, invece percepisco il solletico frizzante di fili d’erba bagnati di rugiada. Sopra di me un cielo opaco, tagliato da punte gagliarde e scure di pini e abeti. Sono gli attimi che precedono l’alba, quando il cielo sembra indeciso sulla veste da indossare. Mi alzo con facilità, fresca e leggera come l’aria che respiro. I miei piedi nudi vengono sommersi dal manto del prato. Inizio a camminare, senza sapere il perché. Non devo, voglio solo gioire di sapere che esisto. Il suolo è bagnato e insidioso, l’aria ancora acerba della primavera mi morde la pelle, eppure non sento freddo.

Mi pervade il sollievo di non dover più lottare, la possibilità di essere e basta, di perdermi. Mi trovo al confine tra due o forse più mondi, in una dimensione in cui tutto è ancora da creare, in cui tutto può ancora essere.

Senza accorgermene comincio a correre e vengo proiettata in un turbine di colori, sfiorata da correnti di voci, mentre ogni cosa si frantuma in infiniti coriandoli di stelle e pietre preziose e aromi di ogni genere s’intrecciano e mi accarezzano. E la spirale di tutto e di nulla si avvolge intorno a me sempre più in fretta, vorticando in una miriade di frammenti di specchi.

D’un tratto mi ritrovo a camminare sulla terra soffice e umida. Questa volta il vento profuma d’autunno, un’essenza fresca ma mite, leggermente amara, come rimpianti velati di polvere.

Cammino e accanto a me sfilano alberi vestiti di mille colori e volti e luci e sorrisi e sguardi e respiro l’aria intrisa delle lacrime con cui scrivo nel vento. E allora la mano si affretta, la mente corre, il cuore galoppa, l’anima si libra in volo… E un suono di campane si riverbera nella cupola affrescata di stelle del cielo e tutte queste luci paiono bucarlo e avvicinarsi sempre di più e inglobarmi e anch’io divento luce pura e mi dissolvo e perdo forma e identità… Eppure sono, più di quanto io non sia mai stata. La mia anima è lacerata da due desideri contrastanti: fermarmi per sempre ad assaporare questa bellezza o proseguire. Una volta che mi sono abbandonata, lasciarmi andare di nuovo sembra così semplice, naturale. Eppure sento che non è la scelta giusta. Quel poco della mia coscienza che ancora non si è dissolto in queste meraviglie mi spinge a continuare a camminare, o rischio di non emergere mai più. Così proseguo, questa volta a occhi chiusi. Melodiosi richiami di sirene lambiscono la mia mente come la marea accarezza le conchiglie. Percepisco ombre di presenze, echi di voci che pronunciano quel che ho sempre voluto sentire, mentre soffocavo quello che non volevo ascoltare. Profumi dolciastri e pesanti hanno offuscato gli aromi delicati che mi cullavano in precedenza; le risate, zampilli di pura leggerezza, sono sbiadite, prosciugate avidamente da strida aride e sterili.

Quando riapro gli occhi, i colori sono stati offuscati. Intorno a me scheletri opachi di un passato spazzato via dalla violenza. Ha risucchiato il calore dei focolari con le sue fauci arrugginite, mai sazia, ha spaccato pareti e mura con i suoi artigli di ferro, ha ridotto in cenere con il suo respiro rauco castelli di carta costruiti da mani di bambini. Vorrei serrare gli occhi, proteggermi da quello che vedo, ma non posso, non voglio. Un fischio ininterrotto mi perfora la mente, si insinua in ogni cavità dei miei pensieri. Dove sono? Cos’è successo ai colori, alle luci, ai profumi, alle voci spensierate, alla brezza? Ovunque io volga lo sguardo, devastazione. È questo quello che ci aspetta, una volta che ci siamo districati dalla setosa pesantezza dell’illusione?

Corro, corro, cocci e ghiaia si conficcano nelle piante dei miei piedi, nubi di polvere mi oscurano la vista. Giungo a un’altura, sulla quale spicca lo scheletro arrugginito di un’altalena, testimone inascoltata di un passato spazzato via. Al mio sguardo si offre una pianura di devastazione, l’eco della disperazione si propaga tutt’intorno, avvolgendo ogni cosa, entrando nel mio petto e stringendolo in un abbraccio di morte. Non provo nemmeno a ricercare la causa che ha fossilizzato i cuori degli uomini e congelato le loro menti, a volte non serve sapere il motivo. L’unica certezza è che questo è  l’inferno, costruito con le nostre stesse mani.

Un passo e poi un altro, calpestando cocci di sogni infranti.

Mi ritrovo ammantata da un’oscurità vellutata e fresca. Provo la sensazione di essermi appena svegliata da un interminabile sonno, del quale, stranamente, ricordo ogni dettaglio. Come potrei dimenticare quel che ho visto? Ma l’ho visto veramente? Da tanto tempo soffoco sotto la cenere la scintilla di meraviglia che tiene in vita un essere umano. A volte percepisco la sua luce e il suo calore più intensamente e allora credo ancora nel foglio bianco da riempire di infinito, nella vita che non si srotola come un tappeto pesante e polveroso, indicando una via prestabilita, ma in un sentiero, tracciato mentre lo si segue, il cui atto di creazione avviene nel momento stesso in cui si posa un passo.

Non so più sognare. Ma forse questo atto non è subordinato agli rigidi schemi del saper fare, va oltre. Guardare un seme e vedere il fiore, sfiorare l’erba e sentire una carezza, ridere e raggiungere le stelle… Sognare è al tempo stesso istinto e scelta, bisogno e responsabilità. Perché chi sogna, al contrario di quel che può apparire, non sceglie la via più semplice, ma infinite strade, inesplorate possibilità, ognuna con la capacità di essere, di diventare tangibile.

La coperta è piacevolmente tiepida, il cuscino morbido contro la mia guancia.

– Hai delle foglie nei capelli… -. La voce mi giunge indistinta attraverso gli strati del sonno. Mi giro lentamente sulla schiena, pronta a immergermi nuovamente nel dolce lago dal quale mi hanno tirata fuori.

– Ma cos’hai fatto? Il tuo letto è pieno di fili d’erba, foglie, ramoscelli… E hai le guance sporche di, che cos’è… terra? – . Le parole ormai hanno perforato quel che restava del mio sonno. Sono investita da questa cascata di suoni, uno sciabordio che mi trafigge la mente.

-Dove sei stata?–

Apro gli occhi.

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