Un vero capolavoro del sapore. Mangiatelo e capirete
Il Medioevo è stata una meravigliosa epoca segnata da superstizioni, numerologia, esoterismo e molto, molto altro ancora. E tra i tanti convincimenti c’era quello che accompagnò per secoli il colore bianco, simbolo di purezza e candore, tanto che lo si riservava solo a particolari situazioni, come battesimi e matrimoni, o, anche, ad alcuni cibi. Uno in particolare, concepito proprio per essere dedicato all’“ascetismo culinario”, se così possiamo definirlo, una ricetta sia dolce che salata che imponeva l’uso esclusivamente di ingredienti del colore frutto dell’unione di tutti i colori, come se il risultato finale potesse rappresentare la fusione di tutti i cibi, l’Alfa e l’Omega della sapienza gastronomica umana: il colore bianco, appunto. E anche nel nome che gli si attribuì sin dall’inizio, si volle omaggiare questa koinè culinaria, presente contemporaneamente in molte cucine europee ma che poi solo in alcuni luoghi dell’antico continente si caratterizzò divenendo una ricetta tipica: il Biancomangiare. Probabilmente apparso per la prima volta in Francia (dove ancora esiste il Blanc Manger), se ne ritrovano tracce in regioni italiane molto lontane tra loro per geografia, cultura e tradizioni, dalla Valle d’Aosta alla Sardegna, fino in Sicilia, dove – ça va sans dire – ha trovato la giusta sensibilità tra le sapienti mani di mastri pasticceri ispirati.
La prima versione medioevale del Biancomangiare, quella salata, era un tributo al misticismo simbolico-cromatico degli ingredienti utilizzati: petto di pollo sfilettato, latte di capra, mandorle, riso, lardo, porro e zenzero bianco. Non ne era stata elaborata una vera ricetta, ma se ne concepì la lavorazione a esclusivo favore del colore, quindi quando lo si cucinava “salato” era più uno stufato di carne o una minestra, che però poteva anche diventare un’asciutta insalata o una crema per condire, tutto secondo i gusti e i tempi di preparazione a disposizione. E nel tempo si ebbero anche una versione “quaresimale” (che ovviamente prevedeva carne sì bianca, ma di pesce) e una quattrocentesca, caratterizzata dall’uso di brodo di cappone e mollica di pane. Insomma, niente di più lontano da quello cui oggi siano soliti associare al nostro Biancomangiare.
Infatti, in Sicilia, ecco spuntare all’improvviso l’altra faccia della medaglia dello stesso, quella dolce e delicata che conosciamo, che unisce il latte allo zucchero e all’amido, con l’aggiunta della freschezza della scorza di limone, la cannella e i biscotti a scelta (da quelli “da inzuppo” ai classici savoiardi) per “strutturarlo” all’interno. Il tutto, poi, lasciato raffreddare in una ciotola o in un tegame della forma che si vuole e, infine, servito con una decorazione di granella di mandorle, pistacchio e gocce di cioccolato fondente. E a vederlo così, sul piatto di portata, sembra robusto e austero, ma poi, assaporandolo, lo si scopre morbido e dal sapore sorprendente, vetta di due straordinarie dicotomie che proprio non ci si aspetta: il dolce-amaro dei suoi ingredienti e il corposo-tenero della sua consistenza.
Un vero capolavoro, spesso creato dalle nonne nei nostri lunghi pomeriggi di gioco, quando il solo nominarlo era già motivo di festa, gustosissima calamita attorno alla tavola per grandi e piccoli. Ogni occasione era – ed è ancora – buona per assaggiarlo, forte della sua semplicità e di un gusto che colpisce inesorabilmente il palato. In Sicilia, non solo infatti una ciliegia tira l’altra: provate col Biancomangiare appena pronto, iniziate a mangiarne e poi capirete, oh sì che capirete…