La cucina siciliana tra storia e curiosità.
In Sicilia pronunciare la parola “Pizza” vuol dire spalancare i cancelli di un vasto universo pieno zeppo di sorprese. Certo, esiste anche sull’isola la pizza come la si intende e la si gusta in tutto il mondo, ci mancherebbe, anzi ne vengono proposte di ottime e dai condimenti più gourmet, ma la tradizione siciliana annovera prodotti da forno della stessa “famiglia” della pizza, assolutamente unici e che caratterizzano quel mondo di cui si scriveva poco sopra.
Senza voler assolutamente metterli in classifica, noi partiremmo da quello che ha le origini più antiche, il Cuddiruni, ovvero la tipica pizza isolana imbottita. La sua origine risale nientemeno che al periodo compreso tra l’VIII e il III secolo a. C. (quello, per capirci, della dominazione ellenica della Trinacria, così chiamata proprio dai greci nostri conquistatori), quando tra i vari panificati di farina di grano duro abitualmente consumati vi era la Kollura, una pagnotta condita dalla forma circolare, cui poi ci si è chiaramente ispirati per “battezzare” e configurare l’aspetto del cuddiruni, oggi però conosciuto sia nella classica (e storica) foggia rotonda che in quella rettangolare, tipica delle teglie usate per cuocerlo. Prodotto della cucina popolare siciliana, che dovremmo ricordarci di ringraziare ogni giorno, nel corso di oltre due millenni divenne l’alimento usato in ogni occasione, dalle lunghe cene in famiglia al veloce pranzo consumato durante i lavori nei campi, abbastanza semplice da preparare, economico perché la maggior parte degli ingredienti erano stagionali, quindi raccolti gratuitamente in campagna, e, soprattutto, buonissimo, grazie alla farcitura molto ricca di verdure, sapientemente insaporite: cipolle e patate in primis, ma potevano anche esserci olive, pomodoro, verza, bietole, broccoli e acciughe, tutto dipendeva dal periodo dell’anno e dalla disponibilità dei prodotti. Esternamente, secondo i gusti, e allora come oggi, poteva essere lasciato “in bianco” (semplicemente con olio, origano e una spolverata di formaggio), oppure “in rosso” (utilizzando una fresca salsa di pomodoro). Breve annotazione a margine: nel ragusano ne esiste una variante molto particolare, chiamata Scaccia (da scacciata, “schiacciata”), le cui peculiarità sono date dall’impiego di un impasto di grano duro non lievitato e lavorato a sfoglia, da ingredienti che spaziano dalla carne al pesce, fino alle verdure, e dal fatto che pasta e farcitura sono ripiegate più volte su loro stesse (formando, quindi, alcuni strati), messe in forno e servite rigorosamente a tranci. Inoltre, spostandoci di una manciata di chilometri (a Sortino, in provincia di Siracusa), ci si imbatte in una specialità locale assolutamente da non perdere, il Pizzòlo, una pizza preparata utilizzando farine di grani antichi come Russello o Tumminìa, “bianca” in superficie (condita con olio, origano, pepe nero e parmigiano) e imbottita con farcitura salata (carne, verdure, formaggi o salumi) o dolce (crema al pistacchio, al cioccolato o ricotta e miele, quest’ultima davvero squisita). Il suo nome deriva dal termine dialettale pizzòlu, che indicava la massiccia pietra di forma ellittica (ovoidale) su cui in passato venivano cotti.
Altro abitante del mondo di cui sopra, è caratterizzato da una pasta soffice e porosa e da condimenti dal sapore accattivante, lo Sfinciuni. La sua origine è legata alla cosiddetta “gastronomia conventuale”, perché pare che siano state le suore del Monastero di San Vito, a Palermo, a idearne la ricetta, allorché vollero preparare una tipologia di pane diverso da quello tradizionale, più condito e gustoso, da consumare nei giorni di festa, e si iniziò a chiamarlo sfinciuni proprio per la sua caratteristica principale, ovvero l’essere preparato con un impasto particolarmente spugnoso (dal greco antico spòngos e, in seguito, dal latino spongia e poi dall’arabo isfanǧ, tutti termini significanti “spugna”). Una curiosità: pare che lo sfinciuni ideato dalle suore, all’inizio fosse condito con besciamella, interiora di pollo e piselli e non annoverasse tra i suoi ingredienti il pomodoro, che ancora non si conosceva: era quindi “bianco”, particolare che colloca la sua invenzione presumibilmente prima della scoperta dell’America, come noto avvenuta nel 1492. Fu nel corso dei secoli che la ricetta venne poi radicalmente modificata a favore degli ingredienti più semplici e “leggeri” (pomodoro, caciocavallo, acciughe e origano) che noi oggi conosciamo e apprezziamo per le strade panormite. Seconda curiosità: esiste anche lo sfinciuni di Bagheria, diverso da quello palermitano perché esclusivamente “bianco” e contraddistinto dall’uso di tuma o ricotta, ricoperte da mollica di pane condita con formaggio, unite sempre a cipolle, acciughe e caciocavallo. La sua nascita si farebbe risalire a una reinterpretazione che i monsù (i celebri cuochi professionisti presso la corte del principe Giuseppe Branciforte di Butera, il nobile che fondò proprio Bagheria) elaborarono rispetto all’originaria ricetta delle suore palermitane, per valorizzare i migliori prodotti locali. Qual è il più buono tra i due? Beh, a voi scoprirlo, ovviamente.
Alla stessa tipologia dello sfinciuni appartiene anche un’ottima specialità trapanese da forno, condita con salsa di pomodoro, pecorino siciliano e sarde sotto sale, ingredienti uniti a un altro che, oltre al sapore, ne caratterizza magnificamente anche l’odore: l’origano di montagna, aromatico e speziato, usato in quantità copiosa tanto da determinarne pure il nome, Rianata (oggi tipicità De.C.O. a Marsala, ovvero con Denominazione Comunale di Origine), termine dialettale che deriva appunto da “origanata”.
E poi – quarto asso di questo poker gastronomico tutto siciliano – esiste una ghiottoneria di Sciacca, ingiustamente poco conosciuta fuori dal territorio d’origine ma che merita tanta considerazione: la Tabisca. Il suo nome deriva dal termine arabo tabisc, utilizzato per identificare una pasta di grano duro a lievitazione naturale, e la ricetta originale prevede un condimento costituito da pomodoro, cipolle, acciughe, pecorino, olive nere e olio d’oliva, posto su una base che dopo la cottura dovrà risultare croccante ma con un “cuore” morbido, particolarità che rappresenta infatti la caratteristica principale della tabisca, leccornia che nel corso degli anni ha poi visto associarle gli ingredienti più diversi, tanto da essere proposta, nel territorio saccense, come una esclusiva alternativa all’impasto della stessa pizza. Rigorosamente (ed esclusivamente) cotta nel forno a legna, è inoltre servita – su vassoi di quest’ultimo materiale – in forma rettangolare e dalle dimensioni notevoli, anche mezzo metro. E non si pensi che sia la versione “familiare”, la sua misura è proprio questa, meravigliosamente abbondante.
Adesso, dopo aver calato i nostri quattro assi, la parola a voi…