Totò Bertolino viveva facendo il sarto, ma la sua vera passione era la musica. Studiò, aveva la voce da baritono. Si racconta che fosse talentuoso. Ma sfortunato. Ci sono persone la cui presenza o assenza cambia il paesaggio umano di un luogo
La sua vita era tra la piazzetta e la Matrice. Forse quei “cento passi” li avrà ripetuti centomila volte. O forse un milione di volte. Sempre con la stessa leggera andatura, ricurva e serena. La testa sghemba, le spalle ingobbite.
Cappello o paglietta, a seconda del clima, cravatta a fantasia, giacca a quadri. Le dita della mano abbrunate dal fumo di sigaretta. Piccolo e magro, signorile e ossequioso. Di pochissime parole. Il che, in un’epoca di chiacchiera diffusa e inutile, gli dava un tocco di mistero. Persino di fascino. Salvatore Bertolino ora non c’è più. E’ morto nel novembre del 2007, se ne è andato che aveva ottantuno anni. Non rinunciando, immagino sino all’ultimo, alle sue amate sigarette senza filtro.
Forse sembrerà un’esagerazione; o forse no. Ma chi lo ha conosciuto – per chi a distanza ne riconosceva il profilo, la silhouette molto somigliante a certi disegni che Federico Fellini realizzava per individuare i suoi personaggi svagati e grotteschi – può condividere l’impressione che la piazza di Racalmuto senza di lui manca di qualcosa.
Ci sono persone la cui presenza o assenza cambia il paesaggio umano di un luogo. Si rapportano alla comunità come l’albero a un giardino o il monumento a una piazza. Stanno lì, silenziosi. Per lungo tempo. Tu magari non ci fai più caso, l’occhio ormai è abituato alla loro presenza. Presenza rassicurante persino; ciò che non muta dà sicurezza. Ma se scompaiono, o non sono più al loro posto, te ne accorgi subito. L’orizzonte attorno ha come un difetto di prospettiva, lo sguardo è come mutilato, lo scenario incongruo. E’ la suggestione dell’assenza, forse. O è proprio la forza che certi personaggi promanano.
Bertolino di mestiere faceva il sarto. Prestava “servizio” in una bottega in via Pietro D’Asaro, cinque passi a destra, salendo. Un antro che la memoria riporta odoroso di pantaloni appena stirati, tappezzato di foto di grandi ciclisti in azione perché il principale ne era un grande appassionato. E lui, Totò Bertolino, stava sulla sedia bassa, ditale sul medio e metro attorno al collo. Poi, smesse forbici e fodere, passeggiava. Con riti sempre uguali. Stessa rivendita di tabacchi per i suoi rifornimenti quotidiani di “bionde” che consumava in quantità industriale, stesso bar per il caffè, stesso percorso per lo “struscio”.
Cosa che praticamente poi fece, nel periodo della pensione, per sempre. Amava la natura e gli animali. In tasca un taccuino e una matita, pronto a disegnare uccelli e piccioni.
Ma la sua vera passione era la musica. Studiò, aveva la voce da baritono. Si racconta che fosse talentuoso. Ma sfortunato. La sua permanenza a Roma non diede i frutti sperati, probabilmente aggravato da una delusione d’amore. Fatto è, raccontano, che tornò in paese che era un altro. Più chiuso, più taciturno, solitario e pensoso. Verità o leggenda? Forse è tutto falso, forse non è vero nulla e del canto non gli fregava poi così tanto. Tuttavia ci piace credere che sia accaduto tutto esattamente in questi termini. Una ricostruzione che gli somiglia, rendendo la sua storia umana molto letteraria, molto romantica, molto ottocentesca. Lasciando qualche piccolo enigma, amplificato dai suoi silenzi, che ogni vita del mondo si porta con sé.