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Ecco i protagonisti assoluti della classica pasta al forno alla “palermitana”

La cucina siciliana tra storia e curiosità. “Anelletti”

Antonio Fragapane

La Sicilia è l’isola della pasta. Non solo perché i suoi abitanti sono soliti gustarla praticamente ogni giorno, ma perché questo alimento è stato inventato proprio in terra di Trinacria, nessuna primogenitura cinese (ma non diciamolo a Marco Polo, potrebbe rimanerci davvero male). E il luogo di cotanta creazione, per cui il mondo dovrebbe ringraziarci ogni minuto di ogni giorno, è l’area geografica in cui oggi sorge la cittadina di Trabia, nel palermitano, zona dove durante la dominazione saracena furono edificati solidi ed efficientissimi mulini ad acqua usati per la produzione di farina di grano duro, ingrediente fondamentale per quello che poi diventerà il prodotto alimentare lavorato ed essiccato più importante dell’area.

Le primissime testimonianze di questa straordinaria attività si ritrovano in documenti datati intorno al 1100 e tra i vari formati di questa novità culinaria, uno saltava subito agli occhi per particolarità e originalità, l’anelletto, che col suo diametro di circa un centimetro e una superficie ruvida era l’ideale per la preparazione di un particolare piatto, che cominciò a essere concepito e cucinato proprio in quegli anni, che una certa narrazione vorrebbe etichettare come bui, ma che invece si scoprono essere stati fucina di innumerevoli idee e invenzioni di cui ancora oggi, per fortuna, vediamo segni ed effetti. Ed ecco quindi spiegato anche il perché, storicamente, l’uso di questo tipo di pasta sia diffuso perlopiù nell’area attorno a Palermo.

Ma perché proprio questa particolare forma? Ebbene, la leggenda vuole che ci si sia ispirati agli orecchini di cui le donne arabe facevano un orgoglioso sfoggio. E poi perché, molto più prosaicamente, gli anelletti erano più facili da trasportare e, soprattutto, da cuocere. Tanto che, infatti, si deve proprio ai Mori conquistatori di Sicilia l’ideazione della prima tecnica di cottura della pasta, quella “a timballo”, poi sostituita – alla fine del periodo medioevale – con l’altra che ancora noi oggi utilizziamo, ovvero l’uso dell’acqua calda in pentola per la bollitura.

Dunque, gli anelletti sono detti appunto “alla palermitana”, perché protagonisti assoluti della classica pasta al forno panormita, un vero e proprio timballo in cui i comprimari sono l’immancabile ragù (con piselli), formaggio (la tuma, ovvero la primissima fase di stagionatura del “Pecorino siciliano”) e poi due degli ingredienti più discussi in assoluto in tema di pasta cu furnu: le melanzane e le uova sode. Le prime da friggere in tocchetti o a fette e poi inserite nell’amalgama da mettere in forno, le seconde o da non utilizzare, secondo una prima scuola di pensiero, oppure da aggiungere direttamente intere, in base al pensiero contrapposto. Tipiche scaramucce da cucina, quindi niente di nuovo sotto la cappa.

Ma a proposito di timballo, anche a rischio di andare un po’ “fuori tema”, questo ci sembra proprio lo spazio adatto per ricordarne uno celeberrimo e che tanto ha fatto sognare e fantasticare le menti, ma anche tremare i polsi: il “Timballo del Principe” (o “Pasticcio del monsù”), reso immortale dalle eterne pagine del romanzo Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. I monsù erano i cuochi professionisti che governavano le enormi cucine delle ville e dei palazzi degli aristocratici siciliani e la loro presenza in Sicilia divenne una vera e propria moda nobiliare a partire dal Seicento. In quegli anni, i cuochi di cui stiamo scrivendo erano solitamente francesi (monsù infatti era l’appellativo con cui le maestranze locali – ma poi non solo loro – iniziarono a chiamarli storpiando il termine monsieur), e proprio sull’isola iniziarono la loro famosa e meritoria opera di reinterpretazione di tante ricette, innestando pratiche gastronomiche d’oltralpe ai tantissimi ingredienti che abbondavano nella terra che li ospitava, da sempre un vero e proprio paradiso per tutti gli chef. E fu così che venne concepita una delle ricette “salate” probabilmente più articolate, sperimentali e fantasiose che mai tavola umana avesse visto.

In questo capolavoro assoluto del gusto e della raffinatezza, tutto inizia con la preparazione della farcitura: maccheroni rigorosamente “al dente” uniti a un condimento composto da petto di pollo e prosciutto crudo tagliati a listarelle, trito di carne, fegatini di pollo, salsiccia, uova sode affettate, tartufo nero, funghi champignon, piselli e formaggio grattugiato, il tutto aromatizzato con alloro, cannella, salvia, rosmarino e Marsala (tipologia “Secco”). L’esterno del timballo è invece costituito da un “contenitore”, con relativo coperchio, tutto realizzato in pasta frolla, che sarà poi riempito con i maccheroni precedentemente conditi e messo in forno a cuocere e dorare.

Quindi, una composizione dolce che ne contiene una salata e aromatica. Il risultato? Beh, onestamente, in pochissimi saprebbero rispondere a tale quesito, piatto troppo elitario, ma potreste sempre entrare a far parte di questo ristretto gruppo, qualora lo vogliate…

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