Apparve, a un certo punto. Come in una favola. Spuntò da chissà dove, con la sua aria svagata, la camicia bianca con le punte fuori dai pantaloni, il passo lento e i baffi all’insù, età indecifrabile. Non si sa come, ma accadde così: si vide quel ragazzo magro e inquieto sciamare per le strade di Racalmuto. Qualche scartafaccio sotto braccio, solitamente ricette mediche da barattare in farmacia con qualche flacone di antibiotico. Oppure coi pantaloni neri e le mani macchiati di gesso. Devotissimo all’anziana madre che accudiva – racconta chi li frequentava – con tenerissimo impegno e solida abnegazione.
Si chiamava Totò Vaccaro. E, come appunto nelle fiabe, non aveva mestiere se non quello di alimentare il suo personaggio.
Forse era un elfo, uno gnomo, un folletto, uno spiritello, un fauno. Insomma, una di quelle incantate creature che a un certo momento escono dai boschi per passare qualche tempo in compagnia di quegli strani esseri chiamati uomini. Poi, all’improvviso, se n’è andato. Forse turbato dalla violenza di un mondo che non gli apparteneva.
Del resto, lui, a giustificazione dei sottili baffi curvati verso l’alto che portava, candidamente a un mio amico medico ammise di essere caduto in un’epoca sbagliata. “Mi sarebbe piaciuto vivere nell’Ottocento, questo non è il mio tempo”, diceva. E il dottore a chiedergli: “Ma perché mai dici così?”. “Perché questa è un’epoca senza onore e senza valori”, rispondeva. Parole di un saggio, di uno che la sapeva lunga. Altro che svitato.
“I pazzi – diceva Pirandello in uno stupendo paradosso – sono coloro che hanno perso tutto fuorché la ragione”.
Totò, comunque, aveva i suoi orpelli, le sue ossessioni, le sue manie. Se la sera facevi un giro nei pressi della guardia medica, potevi scommettere che dietro la porta, in paziente attesa, ci avresti trovato Totò Vaccaro. Ma che diavolo poteva volere in continuazione dai medici? Erano croce e delizia della sua strampalata coniugazione dell’esistenza.
Conosceva principi attivi, eccipienti, posologia, controindicazioni e avvertenze di centinaia di medicine. Ansiolitici e antibiotici erano la sua passione. Li accumulava chissà per quale arcano motivo. E chissà perché, quando strappava l’ennesima ricetta dal malcapitato dottore di turno, egli si sentisse in pace. Tranquillo ed educato, composto e mai sopra le righe, si è sempre meritato il rispetto di tutti coloro con cui gli capitava di avere a che fare.
Aveva la mania di riparare col gesso tutto ciò che era malandato. Dai muri di una vecchia casa al marciapiede, da una edicola votiva a una fontana. Anche le tombe andava aggiustando, mostrando una pietà che ai più è sconosciuta. O forse in quei gesti c’era come la volontà di nascondere le brutture di un paese. Racalmuto, che lentamente diventava specchio di un Paese in declino. Una volta capitò a Carmelo Mulè, ex amministratore del paese, sperimentare la voglia di fare di quell’uomo mite. Trovò un rattoppo ai piedi del suo malmesso portone. “Gli volevo pagare il disturbo – ha scritto su Facebook Mulè – ma la sua unica soddisfazione parve essere il mio compiacimento! Il paese cade a pezzi, mi disse, e se qualcuno non pensa a fare qualcosa ci cade addosso, – “mi turba la mente questa cosa” – ripeteva mentre andava via. Ho pensato tante volte a questo episodio, avrei voluto parlarne e non sapevo a chi raccontare qualcosa che andava, secondo me, oltre la solita banalità di cui si nutre il paese”.
Totò Vaccaro cominciò a morire quando la madre perì soffocata in un incendio che si sviluppò in casa. Non perdonò se stesso di non essere riuscita a salvarla. Si sentiva colpevole, anche se colpe non poteva averne. Ma la sua sensibilità, come scorticata dalla vita, debordava. E straripando lo ha portato via, nell’altro luogo, vicino alla madre che amava moltissimo.
Si è ucciso il girono dei morti, nel 2005. Aveva 44 anni. Lo trovarono appeso alla cancellata del cimitero comunale. Aveva comunicato la modalità della sua fine a tutti i suoi conoscenti, avvertendoli anche che al suo funerale avrebbe voluto la banda che suonava a festa. E i giochi pirotecnici. Molti la presero come l’ennesima stravaganza di quell’uomo un po’ fuori giri. Ma fu, purtroppo, di parola. Alle esequie di Totò Vaccaro la banda suonò musiche vispe e i fuochi d’artificio squarciarono il cielo.
Come in una stramba fiaba, dove la morte appare lieve e senza venature di paura