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Màkari? Macari a mia piaci

La Sicilia può anche essere quella di Camilleri e di Savatteri che, tra l’altro, rileggendoli, noto che hanno in comune non solo la stessa penna leggera, ma macari la stessa desinenza finale nel cognome

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Raimondo Moncada

Mi piace leggere le critiche alle opere dell’ingegno umano, sia quelle positive sia quelle inevitabilmente negative che, con i social, diventano accuse inappellabili e tempeste virali quando, incontrollate e incontrollabili, si espandono di condivisione in condivisione con commenti del tipo: “Gnadà, accussì è picciò!”.

Ognuno la pensa come vuole, ‘nzamà! C’è libertà di espressione e io sono per la libertà di espressione, ma ci sono critiche che non si possono digerire, che ti restano nello stomaco e non ti calano se non dopo giorni e giorni di pugni nella schiena (antica ed efficace tecnica sicula che si tramanda di generazione in generazione di patre in figghio).

In questi giorni di finta primavera, di zone rosse e di allerta meteo tendenti al rosso, mi è capitato di rileggere (così come in passato) fior di commenti contro i libri di Andrea Camilleri e contro le riduzioni e le ambientazioni cinematografiche dei suoi Montalbano. Commenti ipercritici (che pare tu veda o ti concentri solo su quelli, innervosendoti) poi fortunatamente bilanciati e poi anche surclassati dai commenti positivi e da un numero di lettori e telespettatori straripante e macari duraturo (come dimostra l’ultimo episodio: Il metodo Catalanotti). E, ora, lo stesso identico meccanismo, con le stesse pare pare (identiche) critiche, lo ritrovo, anche se ancora timidamente, in fasce, dopo le prime puntate, con successo ammutolente di Auditel, di Màkari. Sto parlando della fiction di RaiUno tratta da opere di un altro scrittore siciliano, Gaetano Savatteri, andata tra l’altro in onda, al suo esordio, nel giorno del mio cinquantaquattresimo compleanno (solo una coincidenza?).

La colpa? Farci vedere una Sicilia per come non è mai stata raccontata negli anni passati, nei decenni passati, nei secoli passati, nei millenni passati, nelle ere passate, quando la Sicilia – la terra dove sono nato, e cresciuto, e messo famiglia – mi è stata raccontata con la coppola in testa, con la smorfia cattiva e minacciosa dei suoi indigeni stampata nel volto rigato e bruciato pure dal sole (nenti nnì manca!), con una lingua esageratamente ‘ncarcata (marcata, esagerata, sfottuta), con le pale di fichidindia come perenne e spinosa scenografia, con i maschi (con i più alti indici di testosterone al mondo) in giacca di velluto grosso appesantita dalla lupara a tracolla e con i baffoni della prima ora. Per non parlare delle donne messe a debita distanza dagli uomini, chiuse a chiave a casa, a piangere nascoste dentro uno scialle nerissimo (e tutto il resto dell’abbigliamento con lo stesso luttuoso colore) e gli occhi vergognosi a terra… insomma, la stessa descrizione “stereotipata” che si contesta, ma in senso contrario, alle due fiction sopra citate.

Il Montalbano di Camilleri e il Lamanna di Savatteri hanno, dunque, la grande colpa di restituirci un’isola solare, lucente, leggera, spassosa, ironica, colorata e dove i morti non per forza sono morti per mano mafiosa o per delitto d’onore o per causa di ignoranza o di povertà. Una Sicilia, quella di Camilleri e Savatteri (ca mi piaci), bella a vedersi, con i suoi angoli suggestivi, il suo mare azzurro, i suoi gustosi cibi, il suo vino saporoso, i suoi millenari templi greci, le sue atmosfere di serenità, per i critici non vera ma finta come la fiction che mette tutto in luce. È questo quello che più mi ha colpito di alcune critiche.

Letti i commenti (non tutti, per trovare il tempo di commentare anch’io) mi sono posto una serie di domande azzardando pure e macari delle risposte interrogative giusto per non farmi mancare niente: perché uno scrittore siciliano della Sicilia non si può permettere di dipingere la propria sicula terra in modo differente rispetto al condizionante passato e cioè a come l’ho vista dipinta nel mio oltre mezzo secolo di vita? Forse per una rispettosa ragione nascosta legata alla radicata tradizione del marranzano che appena lo senti pensi subito alla Sicilia? Forse perché noi siculi siciliani siamo ormai condannati ad aderire per eredità iconografica alla ormai canonica, classica, intoccabile, narratologia (che bella palora! Ma dunni mi vinni?) che ha ormai i suoi incalliti e imperdibili  follower?

Gaetano Savatteri mostra la copertina del libro Quattro indagini a Màkari, edito da Sellerio

È come se noi siculi siciliani dovessimo rimanere in eterno schiavi di un’immagine, quella negativa, dolorosa, di sangue, che ci ha reso tristemente famosi nel mondo con pellicole diventate celebri e che ci sono rimaste incollate in testa. Dobbiamo, insomma, continuare a essere brutti e con la smorfia e con la coppola e con un po’ di barbetta per facilitare il nostro riconoscimento e non allontanarci troppo dalla cartolina che illustra da sempre le nostre natie e non ammucciabili origini. Ci viene permesso solo – senza la necessità di alcuna autorizzazione scritta – di farci vedere spensierati sotto il disco ciauloso della luna che si alza silente nel cielo mentre conduciamo lentamente con una mano il mulo legato al nostro variopinto carretto e con l’altra suoniamo il friscaletto.

La Sicilia è anche altro, tanto altro: ha altri paesaggi, altri personaggi, altri sentimenti, altre visioni, altri colori, altri suoni, altri linguaggi, altre sensibilità, altre intelligenze, altre scritture, altre aspirazioni, altri costumi. Non ha solo il velluto nero.

La Sicilia può anche essere quella di Camilleri e di Savatteri che, tra l’altro, rileggendoli, noto che hanno in comune non solo la stessa penna leggera, ma macari la stessa desinenza finale nel cognome. Solo una coincidenza?

Comunque, finemula ccà e viditivi stasira la terza puntata di Màkari. Su Rai 1, alle 21,25. La Manna e Piccionello n’aspettanu, ‘nzemmula a Suleima, gioia mia!

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