Il racconto di Savatteri. Cronache di un’estate assurda, in una redazione di giornale, alle prese con la sgangherata grammatica delle notizie
Aveva il passo pesante del contadino, forse qualche dolore reumatico, una bella ragnatela di rughe che ne invecchiava la faccia, rendendola interessante di fatiche e dolori. “Lo Cicero Salvatore”, disse, offrendo una mano rasposa. Ma era arrivato in un’ora sbagliata, e fui costretto a farlo sedere nella poltroncina di similpelle, dopo averla sbarazzata della pila di giornali che vi soggiornava da sempre. Prese posto con qualche difficoltà, facendo segno che avrebbe aspettato, che non c’era problema: si vedeva che era un vecchio rassegnato alla pazienza.
A differenza di Lo Cicero Salvatore, io ormai non avevo più pazienza. L’avevo esaurita tutta nei cinquantasette giorni di permanenza nella redazione distaccata dove il giornale mi aveva sbattuto all’inizio dell’estate, con un contratto a termine da giornalista e il ruolo – che non avrei nemmeno potuto ricoprire – di capo dell’ufficio di corrispondenza da Racalmare, la località balneare sulla quale il direttore aveva deciso di investire energie e soldi offrendo due pagine al giorno ai villeggianti.
Soldi pochi, in realtà, ché il giornale era famoso per taccagneria, per cui tutte le grandi iniziative si risolvevano in fatica tanta, scarsa gloria e mezzi quasi sempre inadeguati alla premesse. “Cellura, mi raccomando, l’editore e la direzione crediamo molto in questa iniziativa. Racalmare è una zona della nostra Sicilia in grande espansione: il nostro giornale deve essere presente!”, aveva detto il direttore, annunciandomi contratto, incarico e destinazione. “Voglio una cronaca attenta, precisa, imparziale. Un linguaggio moderno, spigliato, brioso. Occhio alle notizie di costume, alle foto curiose. E poi, filo diretto con i lettori: raccogliamo tutto, esposti, lamentele, carenze, disagi. Cerchiamo di essere un contropotere reale, ma sempre coerenti con la nostra linea di rigore e indipendenza. Tanti auguri, Cellura, puntiamo su di lei”.
Mi affidò al segretario di redazione, per avere numeri e recapiti dei corrispondenti della zona, che coprivano le cronache di una ventina di paesi della fascia costiera e dell’interno. Anche il segretario di redazione disse le stesse parole, ma con un tono più ironico, quasi ridente: “Cellura, mi raccomando, linguaggio moderno, spigliato e brioso. Ha capito?”. Penso volesse prendere in giro il direttore, ma non assecondai il suo sarcasmo.
Dopo tre giorni, mentre i tecnici ancora collegavano i computer nella due stanzette sul lungomare, annesse all’Hotel Moderno, già mi chiedevo che cosa ci facessi a Racalmare. Una cosa sola avevo capito – me l’aveva confidata un assessore comunale, durante il mio primo giro di presentazioni con le autorità locali: sindaco, Asl, ospedale, carabinieri e capitaneria di porto. Avevo capito che l’editore del mio giornale era azionista di maggioranza di una società che si preparava a costruire un villaggio turistico da duemilatrecento posti. Certo che lo sapeva bene che Racalmare era in grande espansione.
Al quarto giorno ero riuscito a comprendere perché il segretario di redazione sfotteva sul linguaggio moderno, spigliato e brioso. Un corrispondente mi aveva mandato un articolo di denuncia che cominciava così: “Un preoccupante malessere serpeggia da qualche tempo all’interno dell’area cimiteriale del nostro Comune”. Pensai fosse un caso, ma il giorno dopo un pezzo sull’inaugurazione di un centro per anziani prendeva avvio da queste parole: “Alla cerimonia sono intervenute una folla di cittadini e tutte le associazioni d’arma: marinai, avieri, bersaglieri, mutilati, invalidi e caduti in guerra”. E un po’ più avanti, si leggeva: “Un po’ tutti gli anziani che il pomeriggio non hanno come passare il tempo, salvo a vegetare nella società degli inabili”. La cronaca moderna, spigliata e briosa di una serata in discoteca, a un certo punto diceva: “Si alzò un’avvenevole ragazza, tutta occhi e tutta lingua”.
Qualcuno aveva attaccato un cartellino sulla porta della mia stanza: caporedattore. Ma ero sempre solo, tranne quando passavano Sharon Rizziconi e Gerlando Matraxia, la prima cronista di mondanità e costume e il secondo competente per la nera e giudiziaria. Avrei scoperto dopo cinquantasette giorni che quei due ragazzi avevano la penna di Truman Capote rispetto al resto della mia redazione, composta da corrispondenti pagati a quattro euro e cinquanta al pezzo.
Per cinquantasette giorni, mentre sotto le mie finestre passavano gruppi di bagnanti, spirava lo scirocco o il ponente, il mare si aggrinziva di onde o si spianava di caligine, mi scannavo ad aggiustare prose sgangherate per offrire due pagine al giorno ai villeggianti che sembravano interessati a tutto – dai ricci di mare ai canottini, dai meloni d’acqua al tocco della medusa – tranne che alle mie notizie. Nelle notti di afa, ormai defunta l’aria condizionata della pensione dove mi avevano sistemato, mi rimbalzavano frasi che non riuscivo a rendere in italiano, né nel sogno né nella realtà: “L’auto sostava in maniera sospetta”, “L’anziano agricoltore faceva la macabra scoperta di rinvenire il cadavere”, “Sono partiti i carabinieri dell’antisalvataggio”, “Ha perduto la vita durante una manovra di sorpasso in un tratto curvilineo”, “Si è svolta una squadra di pesca a squadre su trota”, “Faceva gli onori di causa”, “Gli ovini erano in sosta”, “Un’opera ciclopica in calcestrutto”.
Durante il giorno era peggio. Ogni cartella che spuntava dal fax lampeggiava nel mio cervello come una minaccia. E la prima frase che mi finiva sotto gli occhi era sempre la più bislacca. “Subito dopo l’appuntato è andato a dare malforte al collega…”. Aprivo una busta con un fuori sacco? “Prova a bussare alla porta, ma dall’interno proviene solo un silenzio di tomba”. Lo stesso con la posta elettronica: “Il problema non sarebbe stato così escandescente”.
Il sedici agosto fui travagliato da un attacco di gastrite che mi impedì di correggere i pezzi, li mandai in pagina così come erano. Non avevo più la forza, né la voglia, di correggere nulla. L’indomani, preoccupato delle conseguenze, andai presto in redazione. La telefonata del direttore mi fece intravedere il licenziamento. “Bravo Cellura, ieri ho saputo che nelle edicole di Racalmare abbiamo esaurito tutto. Non c’è nemmeno una resa. Ho guardato le pagine, così mi piace: linguaggio moderno, spigliato, brioso”.
Da quel momento, la prosa dei corrispondenti non trovò più la mia censura. Pubblicavo tutto e perfino i titoli si adeguavano: “Ieri mattina il monobichini ha fatto la sua apparizione”, “Sono arrivati dalle località più disperate della Sicilia”, “E’ stato rinvenuto un cadavere seguito a impiccagione”, “Questa patata bollente faceva elevare la scure”. Il giornale, in effetti, andava a ruba, qualcuno arrivò a incorniciare i pezzi più dadaisti e surreali. Un collega catanese, Giuseppe Vecchio, ci fece perfino un libro: “Dal nostro corrispondente”.
Ma quando ormai mancava poco alla fine della mia esperienza a Racalmare arrivò in redazione Lo Cicero Salvatore col suo passo pesante da contadino. Una volta chiuse le pagine, trovai il tempo di ascoltarlo.
Pronunciò poche parole: “Avete scritto stamattina che mio figlio Guglielmo è stato scarcerato. Potete scrivere che non è vero?”. Spiegai che non era possibile, sarebbe stata una falsità. “Ho bisogno di ventiquattro ore, per mandarlo in Germania, da mio cognato. Scrivete che hanno rinviato la scarcerazione”, ripeteva, e quasi sembrava piangesse. “Vedrò che posso fare”, lo assicurai, ma mentre usciva dalla redazione sapevamo entrambi che non avrei scritto nulla.
L’indomani, Gerlando Matraxia arrivò alle cinque del pomeriggio urlando: “Hanno ammazzato uno sul lungomare, si chiama Lo Cicero Guglielmo, anni ventitré, scarcerato ieri”.
Dopo quell’estate, lasciai la Sicilia, andai a Milano, in un’agenzia di stampa. Giurai a me stesso di occuparmi sempre e soltanto di economia: mantengo ancora il mio impegno. Non sono più tornato a Racalmare, ma so che il villaggio turistico non lo hanno mai costruito.