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Il futuro Presidente della Repubblica e la lezione di eleganza di Mattarella

Riflessioni. A proposito del tatticismo esasperato che ha reso la politica sempre più autoreferenziale e distante dal sentire comune

Massimo D’Antoni

Stride, nella politica odierna, quella del tatticismo esasperato, la presa di posizione di Sergio Mattarella. Che ha già fatto sapere di non intendere succedere a se stesso al Quirinale. Neanche per un mandato bis breve, nell’attesa che i “fuoriclasse” della contesa politica odierna possano mettersi d’accordo sul prossimo presidente o che possano insanguinare (le avvisaglie ci sono tutte) la campagna elettorale per le Politiche del 2023.

Emerge, in questo quadro, una saggezza che il presidente Mattarella ha reso sempre più palpabile, rendendone evidente una personalità talmente discreta da rivelarsi lontana anni luce da un agone in cui i cosiddetti “leader” si atteggiano a superstar e i loro cortigiani a fans scatenati, disponibili a tutto pur di eccellere in qualsiasi virtù cortigiana, a partire da quelle meno nobili.

Nel dire no alla sua stessa rielezione, il capo dello Stato è andato oltre, riprendendo una posizione già espressa da uno dei suoi predecessori più discussi, quel Giovanni Leone che aveva invocato una (condivisibile) modifica alla Costituzione nella direzione di impedire l’ipotesi stessa di un secondo mandato al presidente uscente, anche per superare quel semestre bianco nel corso del quale non possono essere sciolte le Camere. Prescrizione che, in un Parlamento parcellizzato come quello italiano, è sicuramente un punto debole che rende ancora più anacronistica la nostra stessa forma di Stato.

La prima volta che si era presentata l’ipotesi di un secondo mandato in Italia fu nel 2013, quando Giorgio Napolitano si vide costretto (a denti stretti) a prolungare il suo settennato. Nel 2015 sarebbe arrivato al Colle Sergio Mattarella. Il resto è storia nota. Così come nota è l’ ambizione di Silvio Berlusconi di essere eletto come suo successore.

La sceneggiatura della storia politica italiana prevedeva che dopo Mattarella (e a seguito di una parentesi a Palazzo Chigi) al Quirinale dovesse andare Mario Draghi. Di cui probabilmente, però, ci sarà bisogno ancora come guida del governo. Difficile fare previsioni, mi guardo bene anche io da questo esercizio di stile del quale sarei soltanto l’ultimo di una lunga lista.

Ma è il tema del tatticismo esasperato quello su cui, in conclusione, voglio soffermarmi. È, quella nella quale viviamo, la politica delle mosse più o meno a sorpresa, con un’azione fatta presumendo di conoscere anzitempo la reazione dell’avversario, nel tentativo esclusivo di metterlo in difficoltà o di tarparne le ali. Una fenomenologia non certo nuova, intendiamoci. Tuttavia, se in passato il gioco delle parti vedeva protagoniste personalità dallo spessore culturale indubitabilmente più robusto, oggi siamo di fronte a un cast di quelle che un tempo non avrebbero avuto nemmeno la dignità delle terze linee.

Il tatticismo ha reso la politica (purtroppo a tutti i livelli) sempre più autoreferenziale e distante dal sentire comune. E per sentire comune non intendo certamente le cortigianerie ma, piuttosto, quella che un tempo veniva definita “maggioranza silenziosa”, quella composta da tante persone che chiedono soltanto le cose normali. I dati sull’affluenza alle urne (adesso precipitati perfino a livello locale, cosa che secondo me deve preoccupare) ci dicono che perfino la maggioranza silenziosa si è stancata di questi politici che giocano a scacchi e puntano sul carrierismo. È a loro che Sergio Mattarella ha inflitto una lezione di eleganza.

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