Fondato a Racalmuto nel 1980

Io sono l’Uomo Ragno

Il racconto della domenica

Angela Mancuso
Angela Mancuso,

Strappa e accelera.

Lo sciancato me lo ha ripetuto mille volte, con la voce roca e cupa e gli occhi randagi da gatto.

Strappa e accelera. E non voltarti per nessun motivo.

É facile, fin troppo facile. La borsetta la tiene con la mano destra. Mano distratta di donna anziana, persa in chissà quali memorie antiche e infantili.

É facile.

Strappa e accelera.

E io faccio così. Strappo. Accelero. Non mi volto.

Neanche quando la sento strillare, strepitare, inveire, supplicare. E l’urlo è il singhiozzo di un gabbiano ferito che precipita in acqua. E l’urlo resta paralizzato e sconfitto sull’asfalto duro della strada.

La targa del Ciao l’ho dipinta di nero. Me l’ha detto lo sciancato di fare così.

Strappa, accelera e non voltarti.

Non lo faccio più. Non lo faccio più. Giuro. Non lo faccio più.Dove corro adesso? Dove vado?

Devi disfarti della borsa, devi disfartene subito! Afferra quello che c’è dentro e butta via la borsa.

Me lo ha detto lui, simulando gesti, con le sue mani da ladro e il ghigno feroce d’assassino.

M’infilo col Ciao dentro un magazzino dimenticato.

I cardini che reggevano il cancello, arrugginiti, si sono disfatti di quell’atroce massa di ferro battuto, che ora giace corroso, guasto,tumefatto.

Dentro è una caverna oscura rigonfia di polvere, siringhe, ragnatele, carcasse di topi.

Tiro fuori un borsellino nero, tintinnante, un mazzo infinito di chiavi, un pettine d’osso, un fazzoletto ricamato, la ricevuta di un versamento postale, una corona di  rosario, una confezione di mentine ancora sigillata.

Infilo tutto nelle tasche interne del giaccone e tiro giù il cappuccio che mi nasconde la testa.

Devo fare in fretta, devo tornare a casa, dopo le otto c’è la banda di Giaco, prende possesso del territorio, ne marca i confini.

C’è la banda di Giaco.

Cinque ragazzoni scarmigliati, arroganti, aggressivi,  cinici e invalicabili e io non voglio prendere pedate.

Mollo il ciclomotore sotto il portico scrostato e umido di muffa della palazzina popolare, tra i calcinacci che si staccano dai muri o che piombano giù dalle pensiline dei balconi. I quattro piani li salgo di corsa, tra urla di mogli e pianti di bambini. O forse è il contrario. Forse sono mogli che piangono e bambini che urlano. Ma è la stessa cosa.

Ed è sempre così.

I quattro piani li salgo di fretta, saltando i gradini a tre a tre. Se mi becca Giaco me le suona. Così. Senza motivo. Perché è più grosso di me. Perché non ha nient’altro se non essere il più grosso di tutti. Solo questo. E io lo odio Giaco, col naso da idiota e le narici sempre umide.

Odio tutti.

Tutti.

Mi infilo in casa e non mi accorgo che c’è lui.

Cazzo.

E’ tornato.

L’hanno rimesso fuori.

Cazzocazzocazzo.

L’ultima volta è rimasto dentro sei mesi e non avevamo da mangiare, ma almeno non le prendeva nessuno. Né io, né i miei fratelli, né mia mamma. Ed ora. Neanche un mese ed è già fuori.

Cazzo!

E già aspetto che arrivi quell’alba assonnata in cui verranno a bussare due divise assonnate che se lo porteranno di nuovo via.

Non saluti tuo padre?

Ciao, pa’.

E volo a chiudermi in camera mia. Che non è solo mia perché ci stiamo in cinque. Tutti più piccoli di me, più scuri di me, più magri di me. Piagnucolosi e irritanti, mentre io non piango mai, non ho pianto mai. Neanche quando mi sono schiantato contro un palo di cemento spezzandomi il braccio. Neanche quando mia sorella è morta di parto che nessuno lo sapeva di chi era quel figlio, neppure lei lo sapeva e tutti s’erano messi a urlare e le femmine del palazzo erano venute a strapparsi i capelli e a dondolarsi avanti e indietro sulle sedie.

E non ho pianto nemmeno quando sono nato e già lo sapevo di chi ero figlio e dove avrei abitato e che Giaco ogni sera mi avrebbe preso a pedate.

Così

Senza motivo.

Solo perché era il più grosso e il più idiota di tutti.

E lo sapevo che il mio maestro sarebbe stato un cane zoppo e randagio che si trascinava negli angoli oscuri ad addentare pane raffermo inzuppato nel vino.

Non si impara a vivere, ma a sopravvivere.

La chiamano “la legge del più forte”, la chiamano “la legge dei lupi”. Non c’è nessuna legge se non quella della sopravvivenza. Se per sopravvivere ti servirà farti lupo, allora fatti lupo, ma attento che non ti sparino, perché c’è sempre un lupo più forte, un lupo col fucile in mano.

Ma se ti servirà farti pecora, allora fatti pecora e confonditi col gregge. E non alzare troppo la testa o vedranno che non sei pecora e ti schiacceranno. C’è solo questa legge, la sopravvivenza.

Ecco cosa mi insegna lo sciancato, e poi ride mostrando denti guasti e gengive malate e prova ad allungare una mano verso di me, ma io scappo via, veloce, per non farmi contagiare dalle dita lorde e artritiche di quella furia grigia.

Tutto quello che ho preso dalla borsa lo infilo sotto il materasso. Mio fratello se ne accorge e un lampo di affamata curiosità gli attraversa gli occhi.

Allora lo minaccio.

Metto su la faccia scura dei guerrieri Sioux e caccio un urlo asciutto e sincopato. Se solo prova a curiosare e a dire qualcosa a mamma gli mozzo le mani e le appendo al collo della statua della Madonna che c’è nel cortile della mia scuola.

La mia scuola è lontana e bisogna andarci a piedi.

Qua gli autobus di linea non arrivano. Qua non ci sono fermate. Qua non ci sono strade, né fognature, né pulizia.

Io vivo in un aborto, in un parto prematuro annunciato da promesse mediatiche e omelie politiche,dimenticato in fretta e rimosso dalla coscienza collettiva.

Un bubbone maleodorante e infetto.

Impossibile da estirpare.

Impossibile da curare.

La mia scuola è lontana e io non ci vado quasi mai. E anche se ci vado sono solo un nome sul registro, gli occhi rivolti al cielo di un professore annoiato, la maledizione di un bidello.

Ci provo, ma prima di arrivare c’è sempre qualcosa che mi distrae.

O qualcuno.

Di solito è Tibia, che si nasconde dietro i pilastri di cemento armato di qualche edificio in costruzione. Qui ci sono sempre edifici in costruzione, coi muratori che si arrampicano come formiche e betoniere gementi che vomitano calcestruzzo.

Provano a nascondere il bubbone con piani e piani di moderni grattacieli. Provano a scordarsi delle pustole infette rendendole invisibili.

Tibia non si chiama così e non lo so in realtà come si chiama. Tutti lo chiamano così perché è secco come un osso.

Anch’io sono secco e affilato,ma sono agile, flessuoso e scattante come un felino.

Tibia è fortunato perché suo padre si arrampica come una formica sui grattacieli in costruzione e a casa ha il televisore a colori che quando trasmettono le partite di calcio puoi distinguere le maglie dell’Inter da quelle del Milan.

A me, invece, mi chiamano l’Uomo Ragno, per la mia capacità di aderire alle pareti, di sgattaiolare via fulmineo e volare da un muro all’altro silenzioso e leggero come la polvere.

Quando Giaco si parava da solo davanti a me non mi faceva paura. Gli sgusciavo tra le gambe, lo aggiravo, gli saltavo sulla testa andando a salvarmi sul tetto dell’androne e rimanevo  appollaiato a testa in giù come un pipistrello fino a quando lui, stordito e disorientato, non andava via.

Giaco ha dovuto metter su una banda per potermi braccare, fermare, seviziare.

Ma non sempre. Perché il mio “senso di ragno” mi fa percepire la loro presenza decine di metri prima.

Fiuto l’odore di Giaco e dei suoi capelli unti come se ce l’avessi davanti, così come fiuto l’essenza marcia  dello sciancato e quella di latte rancido delle bocche dei bambini che vagano sui pianerottoli.

Solo mia madre ha un buon odore, anche se è l’odore triste della rassegnazione e della sopravvivenza.

Mia madre ha dovuto scegliere di farsi pecora e di non alzare mai la testa per non farsi schiacciare. Solo così riesce ancora a nasconderci e a proteggerci sotto il suo ventre.

Nel portafoglio ho trovato diecimila lire.

Le porto a lei, che se le nasconde nel petto.

Le prime volte provava ad aprire bocca, ad interrogarmi, ad interrogarsi, ma le domande restavano strozzate in gola e i soldi sapevano troppo di pane, di uova, di patate.

Io e Tibia andiamo in giro a cacciare lucertole e a tirare sassi ai cani dimenticati. Ci sono svariati modi per torturare e uccidere una lucertola. Puoi tagliarle la coda. Puoi infilzarla con un punteruolo e farla arrostire lentamente su un braciere improvvisato. Oppure infilarla in un barattolo di vetro e vederla soffocare.

Una volta abbiamo litigato perché a Tibia non è piaciuto che con un pezzo di vetro ho tagliato il pallone a un gruppo di ragazzi che improvvisavano una partita all’interno di un campetto immaginario. Come se tagliare le code alle lucertole fosse meno grave.

Allora me ne sono andato, e lui dietro a gridarmi quella  domanda cretina: ma tu cosa  vuoi fare da grande? Come se potessi deciderlo io. Come se il futuro si potesse programmare. Tibia col padre che si arrampica sui grattacieli e il televisore a colori forse ha una possibilità.

Io no.

L’Uomo Ragno combatte il crimine e lotta per il bene.

Io scappo dalla banda di Giaco. Io scappo, accelero e non mi volto.

Io…

Nell’alba assonnata di una mattina qualunque bussano due divise assonnate.

Mi fiondo giù dal letto attraversando i corpi di tre fratelli. Rido dentro perché sono qua per lui. Lo riportano via e mia madre non prenderà più le botte davanti a un fornello spento.

Ma non chiedono di lui. Chiedono di me. Fanno il mio nome. Nome e cognome.

Sono venuti a prendere me, non lui.

Dallo spiraglio della porta vedo mia madre accasciarsi sulla sedia e portarsi una mano al petto. Il volto le diventa di pietra perché il cuore, dentro, non se lo sente più.

Allora il mio senso di ragno si acuisce, lancia il segnale d’allarme, la velocità di reazione è impressionante.

Il mio corpo caccia fuori altre braccia, altre gambe, altri occhi.

Mi arrampico sulle pareti, sul tetto, sguscio via dalla stanza, all’altra stanza, a testa in giù. Arrivo alla porta d’ingresso. Nessuno mi vede, nessuno nota il ragno sulle loro teste.

Scivolo lesto lungo le ringhiere delle scale, attraverso il portone. Scappo via.

E quando se ne accorgono sono già lontano, in volo.

A lanciare fili di ragnatele dai polsi. Fili sottili di seta robusta.

In volo, da un palazzo all’altro.

Non mi prenderanno mai.

Io sono l’Uomo Ragno.

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