Fondato a Racalmuto nel 1980

La guerra e quelle bombe che cadono dove la follia dell’uomo li dirige

C’è qualcosa di già vissuto in quel che mi arriva dall’Ucraina

Bombe, sprofondati, sotto terra, nelle metropolitane, nelle fogne, in luoghi di fortuna. Bimbi che piangono, col terrore negli occhi, che vanno consolati o distratti dal boato delle esplosioni. Hanno lasciato i giocattoli nelle loro camerette. E fuori, in piazza, non possono più uscire per giocare a pallone, così come non possono più andare a scuola.

La paura per il presente e per il futuro è stampata a sangue vivo nei volti degli adulti, dei genitori e dei nonni che, con tutta la famiglia, sono scappati di casa al suono delle sirene. Non possono neanche andare in ufficio, al lavoro. Non possono andare a farsi una passeggiata, a fare la spesa al supermercato, a leggere un libro in biblioteca, a farsi un tampone, a farsi ricoverare. Non sanno che fare, dove andare, cosa prendere dei propri effetti personali, cosa mettere in valigia, se conviene mettersi in macchina e a gran velocità raggiungere non si sa quale destinazione e con quale itinerario. E per fare cosa? Chi li ospiterà? Chi li ripagherà di tutte le perdite e dei lutti subiti e delle lacrime versate?

C’è qualcosa di già vissuto in quel che mi arriva dall’Ucraina, paese dell’Europa dell’Est violentato, devastato, incenerito dalla “speciale operazione” militare voluta dal presidente della Russia Vladimir Putin e che non sta risparmiando niente e nessuno con missili per niente intelligenti che – a leggere le news che l’istinto mi impedisce di seguire – colpiscono palazzi governativi, infrastrutture, abitazioni civili, ospedali, scuole, mietendo vittime tra la popolazione. Tutto è sconvolto e chi non muore sotto le bombe rischia di morire per mancanza di cibo, di acqua, di cure; per mancanza di medici, per mancanza di farmaci; per l’interruzione di una terapia oncologica, per l’impossibilità di mettere al mondo una creatura. E si prova a fuggire anche a piedi, anche con una flebo salvavita attaccata, con i paesi confinanti che già contano milioni di sfollati e altri ne arriveranno, in una processione senza fine.

Scene che non si dimenticano, che non si potranno mai dimenticare. È l’orrore già vissuto dai nostri familiari, dai miei nonni, da mio padre, dalle mie zie, in Italia, durante la Seconda Guerra Mondiale. Orrore che hanno trasmesso ai nipoti, ai figli, e che si risveglia perché il trauma non sparisce, perché – lo ha appurato la scienza – viene trasferito a loro insaputa alle nuove generazioni.

Le foto e i video della tragedia ucraina mi riportano così ad Agrigento, sopra la Via Garibaldi, nel quartiere di San Giacomo, a pochi passi dal Distretto Militare, dove avevano casa i miei nonni paterni Raimondo e Rosina. E suonano le sirene degli allarmi per l’arrivo dell’aviazione Alleata che prepara a suon di bombardamenti lo sbarco in Sicilia del luglio 1943 e il piano di liberazione del suolo italiano, dell’Europa, dall’occupazione nazifascista. E a ogni sirena tutti giù dal letto, tutti ad abbandonare ogni occupazione e via nel vicino buco trasformato in rifugio per gli abitanti del quartiere, un riparo che non ti dà comunque la sicurezza di avere salva la vita (nel rifugio di Via San Francesco, sotto la Via Atenea, una bomba fa centinaia di vittime). E mio nonno Raimondo, sessantenne, decide di lasciare tutto, di vendere tutto, casa, attività commerciale, per cercare di mettere in salvo la famiglia dalle bombe e dall’imminente guerra salendo sul primo treno per un rifugio sicuro sicuro, che tale non si rivelerà, in Umbria, a Perugia.

Un viaggio sotto le bombe, una permanenza sotto le bombe, la nuova decisione di cambiare ancora luogo e di provare a Calcinato, in provincia di Brescia con la scelta di mio padre, Gildo Moncada, a sedici anni, di rimanere in Umbria e di entrare in una brigata partigiana per dare il suo contributo alla lotta contro i nazifascisti pagando il tributo di una gravissima mutilazione. Una scelta che mi ricorda quella di tanti ucraini, giovani e meno giovani, che si sono arruolati volontari, lasciando anche i comodi e sereni luoghi di emigrazione e di lavoro, anche in Italia, anche in Sicilia, per difendere la loro Patria dall’invasore, costi quel che costi, anche con armi di fortuna e senza alcuna preparazione.

Vedo le immagini di un’Ucraina in fiamme, con gli aerei che sganciano  i loro missili e risuonano in me lo stato d’animo dei miei nonni, i loro pianti, il panico, la paura di morire, la preoccupazione di proteggere i figli (Alfonsina, la più piccola, aveva meno di cinque anni quando cominciò la vita da profuga). E risuonano in me i silenzi, anche a distanza di decenni, di chi si sforzava a non ricordare gli orrori vissuti ma che si riproponevano lo stesso al primo stimolo, con una parola, un odore, un suono, una privazione, come quotidiani incubi. Mio nonno Raimondo, per quello che è stato costretto a vivere, è morto dopo tre anni dalla fine della guerra che non si è mai veramente conclusa, che ha impoverito, frantumato, mutilato, la famiglia Moncada così come tante altre famiglie.

“Mai più guerra” ripeteva mio padre ogni 25 aprile, giorno della Liberazione, dando la sua personale e viva testimonianza sul palco di Porta di Ponte, reggendosi con la protesi di legno al piede e gridando alla fine: “Viva la Resistenza! Viva la democrazia! Viva la libertà!”

Una storia che, tra le lacrime, ho cercato di ricostruire qualche anno fa nel libro Il partigiano bambino, rivivendo antichi dolori. E che riaccenno e rivivo in un momento di sofferenza e di sensibilità moltiplicata.

Gildo Moncada

Bombe, sotto le bombe. In Italia, negli anni Quaranta del sanguinoso Novecento, le bombe dei liberatori Alleati, per sfiancare la potenza dei nazisti di Hitler che avrebbero voluto conquistare il mondo, ripulito dagli ebrei; in Ucraina, nel 2022, le bombe degli invasori della Russia di Putin  per rimuovere dal potere i suoi governanti indicati come “neonazisti”, paragonandoli ai nazisti di Hitler che nella Seconda Guerra Mondiale i genitori e i nonni hanno combattuto e fatto fuggire dal lager di Auschwitz.

La storia non insegna nulla. Le bombe non hanno memoria e cadono dove la follia dell’uomo li dirige insanguinando un continente che ha ancora ferite aperte.

https://raimondomoncada.blogspot.com/

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