Far tornare gli agrigentini della diaspora, le intelligenze sparse per il mondo. Almeno per un po’, immaginare Agrigento come una vera capitale culturale
Agrigento è una capitale della cultura in esilio, come i governi di certi Paesi occupati. Questo rende più difficile e più complicata la faccenda. Se non consideriamo i templi, costruiti da greci che non ci sono più da quasi tremila anni, il resto della costruzione culturale di Agrigento è in gran parte fatta da emigrati che hanno lavorato sulla memoria, sulla nostalgia, sul ricordo per realizzare il loro paesaggio culturale.
Le storie di Luigi Pirandello e di Andrea Camilleri ne sono la prova. Il primo, andò via per studiare – a Roma e a Bonn – a vent’anni e a venticinque anni si trasferì definitivamente a Roma, dove infatti morì: le sue ceneri furono riportate ad Agrigento, nella contrada Caos dov’era nato, oltre vent’anni dopo la sua morte. Eppure, da lontano Pirandello aveva costruito un paesaggio letterario e culturale che si identifica con Agrigento (la Girgenti dei suoi tempi) e che ne ha amplificato la leggenda, fino al punto che Agrigento e Pirandello sono una sola cosa, un metodo – se si vuole – di leggere il mondo e i rapporti tra le persone.
Andrea Camilleri lascia Porto Empedocle a ventiquattro anni e va a Roma per frequentare l’Academia D’Arte Drammatica: resterà a Roma per tutta la sua vita – a Roma è sepolto, nel cimitero acattolico del quartiere Testaccio – e a Roma, a poca distanza dalla casa in cui ha vissuto, è sorta, voluta dalle figlie, la Fondazione a lui dedicata che raccoglie documenti e testimonianze del suo lavoro di regista e scrittore. Con l’eccezione di Leonardo Sciascia che andò a vivere a Palermo, tornando ogni estate a Racalmuto, dove è sepolto, dove hanno sede la Fondazione a suo nome e la casa-museo in cui visse per. i primi trentacinque anni della sua vita, molti scrittori, artisti e animatori della vita culturale di Agrigento sono figli di una diaspora che, seguendo i percorsi dell’emigrazione, li ha disseminati per l’Italia e per il mondo.
Agrigento non è mai stata una capitale della cultura in senso classico. Non hai mai avuto un’agorà, una scuola, un’accademia, un cenacolo per i suoi intellettuali dai tempi in cui finì la scuola del filosofo Empedocle, cioè duemilaseicento anni fa. Gli artisti agrigentini hanno sempre fatto da soli, spesso sfidando pregiudizi e indifferenze, andandosene via per realizzare i propri progetti, mentre la città li ignorava: fino al giorno in cui un premio Nobel o un riconoscimento ufficiale li ricollocava tra i figliol prodighi da accogliere tra molti festeggiamenti. Ancor meglio se morti.
Il tessuto culturale di Agrigento è frastagliato, discontinuo, a macchia di leopardo. Ci sono esperienze positive, compagnie musicali, artisti isolati, volontarismi virtuosi, singole iniziative coraggiose, ma convivono accanto a macchine mangiasoldi, ad apparati che drenano denaro per avventure velleitarie o addirittura speculative, senza ricaduta per la collettività, tranne il beneficio che portano ai diretti interessati. I migliori spesso si arrendono o vanno altrove, ambasciatori in esilio di una capitale in esilio.
Paradossalmente, la natura duplice di Agrigento – capitale marginale ma diffusa, locale ma globale, ferma all’estremo sud dell’Italia, ma spalmata in tutta Europa, grazie all’emigrazione della sua gente – ne fa una città di provincia, ma non provinciale. Può succedere, ad esempio, che (come cantava Lucio Dalla) Agrigento a una domanda in siciliano ti risponda in tedesco.
L’occasione di essere capitale della cultura nel 2025 può essere una grande occasione. Ma anche un’occasione sprecata. E bisognerà vedere. Naturalmente, in due anni, da qui al 2025, non potranno essere risolti i problemi idrici, quelli urbanistici e non si potrà costruire una ferrovia che porti la gente da Palermo o da Catania in un’ora fino alla stazione di Agrigento. I tempi di percorrenza sono ancora quelli post-unitari, su una rete ferroviaria che risale all’Unità d’Italia, vecchia di un secolo e oltre.
Ma per essere capitale, Agrigento dovrebbe cercare di far tornare – anche per pochi mesi, per qualche settimana – le tante esperienze culturali che gli agrigentini hanno costruito e realizzato in giro per l’Italia e per il mondo. E dovrebbe fare sentire meno soli ed isolati quelli che testardamente sono rimasti in quella provincia, cercando di fare qualcosa di buono in una realtà aspra e desertificata, spesso senza aiuti pubblici, anzi con ostacoli e lacciuoli costruiti dalla burocrazia e dal clientelismo. Insomma, riportare ad Agrigento la capitale in esilio. Almeno per un po’.