Fondato a Racalmuto nel 1980

Quel sabato e quella domenica di trentuno anni fa

Le Stragi di Capaci e di Via d’Amelio nei ricordi di Antonio Fragapane, docente, giornalista e scrittore

Antonio Fragapane

Quel sabato pomeriggio ci ritrovammo in campagna con alcuni parenti. Si avvertiva già il caldo e l’allergia non mi dava tregua. Ma ho voluto lo stesso poter assaporare il primo scampolo estivo, non foss’altro che per iniziare a prendere una certa confidenza con l’idea che la bella stagione e le vacanze fossero finalmente alle porte. La casa rurale dove ci trovavamo era appoggiata su un morbido pendìo da cui si domina la vallata, a oriente di Cometa, famosa per le sue nebbie invernali, il manto stradale a volte pericolosamente ghiacciato e le sue temperature, certamente non proprio da isola del sole. Sotto il forno ardeva una strana legna aromatica, forse vecchia di anni. E tutto ciò che all’interno del fuligginoso cubo di ferro stava cuocendo, sprigionava profumi secondi solo alle inimitabili essenze che la natura riesce a diffondere nei pomeriggi di primavera. Nello spiazzo ricavato tra la casa e il terreno circostante ordinatamente coltivato, in piedi o seduto all’ombra, c’era chi chiacchierava tranquillamente. Chi, con una vecchia chitarra, tentava d’indovinare quel giro di do con cui poter accompagnare le canzoni cantate sempre in quelle occasioni. E chi, come me, azzardava qualche palleggio con una racchetta da tennis, in uno spazio su cui non si poteva neanche allungare una sedia a sdraio.

A ripensarci adesso, quelli erano anni in cui noi ragazzi ci accontentavamo di passatempi che oggi farebbero sorridere. Ma tant’è, ci si divertiva e tanto ci bastava. Messa in un angolo e con l’espressione scura in volto, ricordo una mia cugina preoccupata per il suo imminente esame di maturità. Parlava dei suoi timori per le prove scritte ma soprattutto per quella orale, che più di tutte le toglieva il sonno la notte. Io percepivo distrattamente le sue parole, concentrato com’ero tra una battuta, veloci palleggi e infinite discussioni sulla palla dentro o fuori, manco fossimo sul cemento degli Open australiani. Più di me, invece, sembrava interessato a quella discussione il mio avversario, anche lui in procinto di fare un esame ma decisamente meno preoccupato, com’è giusto che sia a tredici anni. Ci guardavamo e si sorrideva per quell’ansia che neppure capivamo, troppo impegnati a batterci per spuntarla sul set finale prima del buio serale. Non ricordo come finì quella partita, preludio di una cena che prometteva fumanti pizze farcite, caponatine varie e quel vino rosso casareccio che non può mai mancare in momenti del genere. Ma una cosa la ricordo e molto bene, impressa come un marchio indelebile nella mia memoria, quasi un presagio. All’improvviso mi resi conto infatti che il piacevole tepore era stato spazzato via da un vento freddo che, di punto in bianco, ci obbligò a riparare nella piccola casa e a traslocare frettolosamente lì dentro l’intera tavola così com’era stata fuori apparecchiata. E mentre eravamo impegnati a fare tutto ciò, scorgemmo addirittura dei lampi minacciosi che illuminarono l’ampia vallata che di fronte a noi stava lentamente scivolando nelle tenebre.

Quei fulmini anticiparono alcuni tuoni rimbombanti e venne giù anche qualche fastidiosa goccia di pioggia. Era cambiato tutto. La temperatura dell’aria, l’atmosfera e il nostro umore, ottimo fino a pochi minuti prima. Infreddoliti e impreparati a tale repentino mutamento, fummo purtroppo costretti a velocizzare i tempi di una cena che avrebbe invece meritato ben altra dedizione. E rientrammo a Cometa molto prima del previsto, delusi da come erano stati così bruscamente modificati i nostri programmi serali. Avvenne tutto talmente rapidamente che ci ritrovammo a casa in un orario reso ancora più strano dal fatto che fosse un sabato. Come prima cosa accesi il televisore, tanto ormai non mi sarei più potuto organizzare per uscire con gli amici. Fu un attimo e fu scandito dalle immagini trasmesse in contemporanea da tre canali nazionali. Le riprese mostravano un tratto di autostrada completamente capovolto. Non rimaneva niente dell’asfalto su cui fino a pochi minuti prima avevano viaggiato migliaia di automobili, esattamente uguali a quelle che tutti noi usiamo ogni giorno. Il catrame si era dissolto nel nulla, come se lì non ci fosse mai stato. Alcune macchine erano sotto cumuli di terra. Una, di colore bianco, era completamente tranciata e ne restava solo metà. Un’altra, di cui rimanevano solamente brandelli, era stata ritrovata a quasi cento metri di distanza e se non fosse stata ancora fumante, probabilmente l’avrebbero scambiata per una di quelle tante carcasse di auto abbandonate di cui le nostre campagne conservano i resti. Un convulso via vai di poliziotti, carabinieri, elicotteri e ambulanze. Scene di guerra, perché proprio di questo si iniziò a parlare. E i commenti degli attoniti cronisti, pronunciati con sconvolgente voce grave e smarrita, mi fecero finalmente capire cosa fosse avvenuto. Allora avevo quattordici anni, ma anche a quell’età episodi così possono incidere nel profondo. Almeno quanto avessero fatto i cinquecento chili di tritolo che fecero sparire duecento metri delle due corsie di quel tratto autostradale. E il giorno dopo, tra i titoli delle prime pagine dei giornali, ve ne fu soprattutto uno che con due sole parole fendeva un durissimo colpo alle nostre speranze.

Venne poi una domenica d’estate. La compagnia era più o meno la stessa, anche se eravamo lontani da Cometa. C’era il cugino che aveva superato quel suo primo esame, invece mancava la cugina che aveva appena terminato la sua carriera liceale. Si festeggiava un compleanno. In molti andammo in spiaggia e, stranamente, sia di mattina che di pomeriggio. La temperatura era davvero torrida e non vedevamo l’ora di sguazzare nel nostro bel mare. Ricordo che il lido era particolarmente gremito, variopinto e generoso di odori e suoni. Noleggiammo pure un pedalò, convinti dal fatto che le correnti marine, che in genere battono implacabili quel piccolo ma suggestivo litorale, avessero deciso di dare una strana tregua. Dall’alto di un solitario doppio scoglio era possibile vedere chiaramente il fondo anche a parecchi metri di profondità. La limpidezza di quelle acque divenne quindi per noi ben presto una tentazione troppo allettante. E dopo qualche ora a mollo decidemmo di rientrare a casa. Sapevamo che la giornata non sarebbe finita presto, perché per i festeggiamenti ci si era affidati alla frescura del vespro. E forse in serata sarei stato impegnato anche in un altro infinito incontro di quel nostro tennis casalingo, ma non ne ero ancora sicuro. Risalimmo la bollente striscia di cemento che, tra le ville dei vacanzieri, mette il mare alle spalle degli assolati turisti. Ci avviammo a fatica lungo la salita che ci separava da una doccia rinfrescante. Nulla, assolutamente niente stavolta poteva far presagire ciò che in quegli stessi momenti stava succedendo in un altrove che ci sembrò veramente un altro mondo. Varcammo la soglia di casa, dove fummo finalmente investiti dal refrigerio dell’ombra che ci permise di riprendere fiato. La tavola stava per essere apparecchiata ma notai che il lavoro era stato lasciato a metà. Ritrovammo in piedi, e increduli, i pochi che non erano scesi in spiaggia con noi. Tutti davanti al televisore. Sembrava quasi che sulle rigide espressioni dei loro volti si specchiasse ciò che in tivù stavano passando in quel momento. Il volume era alto e la scena trasmessa pietrificante. Su tutte le reti nazionali le stesse immagini, unificate. La porta-finestra che dava sul balcone era completamente spalancata per permettere di creare una lieve brezza, tenue conforto in una giornata come quella. Mi accorsi che dalle abitazioni vicine, creando un effetto eco inedito per una zona marina, si udivano distintamente le stesse voci e gli stessi suoni che, nell’appartamento in cui ci trovavamo, stavano raccontando in tempo reale cosa stesse succedendo. Le macerie erano quasi uguali alla prima volta, le auto squarciate allo stesso modo e gli allarmi terribilmente squillanti. E ancora elicotteri e ambulanze. Mi colpirono, in particolare, le inquadrature che dall’alto mostravano la scena di totale distruzione di quel tratto di via urbana, così simile a quelle che tutti noi quotidianamente percorriamo e che quel giorno fu il baricentro di un cieco orrore. I pianoterra dei palazzi lì intorno erano stati tutti anneriti dall’esplosione e molte finestre frantumate da ciò che all’inizio fu percepito come una scossa di terremoto. Ma quella domenica, anche se la terra tremò, non ci fu nessun sisma. E poi tanta gente, una moltitudine di persone che gremiva l’area già pochi attimi dopo lo scempio. Dalla diretta televisiva si udivano le continue sirene in sottofondo e i commenti turbati degli inviati facevano intuire che avevano ancora davanti ai loro occhi la scena indelebile di quell’altro ignobile cratere.

Cinquantasette giorni dopo era successo ancora. E l’indomani, le aperture dei quotidiani che andai a leggere erano un tutt’uno con quell’altro titolo scritto, quasi due mesi prima, a caratteri cubitali pesanti come macigni. Mi colpì il clima in cui si era piombati. Lo si percepiva ovunque e il fatto d’essere poco più che adolescenti non ci mise al riparo dai pensieri di sgomento e incredulità che invece ci svegliarono bruscamente dal nostro torpore estivo. Fu la stagione di un anno che ancora oggi ricordiamo. Le voragini che quelle due bombe aprirono nelle nostre coscienze inghiottirono tante vite e spezzarono i sogni di uomini e donne che mai vanno dimenticati. Quel sabato morì Giovanni, ucciso insieme a Francesca, Rocco, Antonio e Vito. E quella domenica morì Paolo, ucciso insieme a Emanuela, Agostino, Vincenzo, Walter e Claudio.

Sono passati tanti anni, ma a noi è rimasta per sempre l’eredità di due uomini e di chi li ha voluti proteggere fino alla fine.

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Dal volume “Comete” di Antonio Fragapane, edito da Medinova nel 2016. Si pubblica su gentile concessione dell’Editore.

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