Fondato a Racalmuto nel 1980

“Sciascia già in gioventù era un rapace spettatore di quel teatro che era la Sicilia”

L’intervista (nel 2013) di Giancarlo Macaluso al poeta Stefano Vilardo, compagno di banco di Leonardo Sciascia. “Tutti a quel tempo conoscevamo i boss dei nostri paesi. La mafia non incombeva, ma si avvertiva. Leonardo è sempre stato contro la mentalità e i metodi mafiosi”. Stefano Vilardo è morto il 17 gennaio del 2021

Stefano Vilardo fotografato da Angelo Pitrone

La casa editrice Barion (vecchio e glorioso marchio editoriale fatto rinascere dalla Mursia) nel 2013 ha ripreso le sue pubblicazioni con il volume “La storia della mafia” di Leonardo Sciascia, ristampando un saggio disperso del 1972. Nel libro anche l’intervista di Giancarlo Macaluso al poeta novantenne Stefano Vilardo, amico e compagno di banco di Sciascia che racconta qual era la percezione della mafia tra gli adolescenti siciliani. Stefano Vilardo è morto il 17 gennaio del 2021.

Centro della Sicilia. A cavallo fra gli anni Trenta e i Quaranta del secolo scorso. La miseria si taglia a fette; il fascismo incombe e sorveglia; la mafia è acquattata per la repressione del “prefetto di ferro”, ma pronta a rimettersi in piedi. La giustizia è solo una vaga idea, la libertà nemmeno quella, i diritti solo una parola, la violenza fa parte del paesaggio, l’arbitrio è la regola, l’equità solo un incidente di percorso nella vita dei povericristi.

E’ il clima che respirano due ragazzini che s’incontrano fra i banchi del primo anno di scuola all’istituto magistrale di Caltanissetta, diventando da quel momento amici inseparabili. Uno arriva da Racalmuto, povero paese dell’agrigentino bacato dalle zolfare e dalle saline; l’altro da Delia, piccolo centro nisseno che vive perlopiù di agricoltura e pastorizia, ma anch’esso fornitore di carusi, picconieri, capomastri e giornatari alle miniere. Il primo si chiama Leonardo Sciascia, classe 1921, il secondo Stefano Vilardo, nato nel 1922.

Vilardo è un ragazzone di 91 anni. Con la mente freschissima a dispetto dell’età. Sprizza lucidità e ironia da fare invidia a tanti tromboneggianti intellettuali alla moda. Solo un po’ rallentato nei movimenti: “Ah, le mie ginocchia. Se non fosse che mi fanno male… Leonardo conoscendo la mia ipocondria mi sfotteva dicendomi ‘Tu hai avuto tutti i mali del mondo. Ti manca nella collezione solo il ginocchio della lavandaia, ma solo perché non sai che cos’è’. Ed eccolo qua”.

Maestro di scuola elementare e dunque collega di Sciascia. Ma soprattutto il suo amico più intimo. Un legame che comincia fra i banchi a partire dall’anno scolastico 1936-’37, consolidandosi e alimentandosi per tutta la vita. “Nemmeno uno screzio tra noi, mai”.

Vilardo è – non a margine – anche scrittore raffinato e colto (Tutti dicono Germania Germania, Uno stupido scherzo, Una sorta di violenza). Della familiarità con “Nanà” (così gli intimi chiamavano Sciascia) ha pubblicato con Sellerio un gustoso libretto (A scuola con Leonardo Sciascia) ricco di aneddoti sulla loro indivisibile giovinezza sotto il fascismo. “Io fui il suo testimone di nozze – racconta – e in dono portai agli sposi un coniglio e due piccioni. Meraviglia per il regalo? Avete idea di cosa fosse la Sicilia nel ’44? Non c’era niente”.

Leonardo Sciascia fotografato da Angelo Pitrone

Vilardo di quegli anni ha tutto scolpito nella memoria che non gli fa cilecca. “Quando eravamo ragazzi – spiega – prima ancora che la violenza mafiosa abbiamo sperimentato la violenza del fascismo. La prepotenza dei comportamenti delle divise di orbace. Poi, caduto il regime, tornarono nuovamente a petto in fuori i mafiosi. Anche sotto il fascismo Sciascia mi diceva che i picciotti erano ‘zittiti ma non morti’. Insomma, Cosa nostra non incombeva; ma si avvertiva, c’era. Tutti, compreso io e Leonardo, conoscevamo i boss dei nostri paesi. Sapevamo chi fossero. Funzionava così”.

In un’intervista degli anni Ottanta, Sciascia confermerà le parole del suo amico: “Io sono uno che si è trovato a scrivere della mafia proprio perché l’avevo vissuta negli anni dell’infanzia. Ero stato spettatore della repressione Mori, spettatore infantile ma appunto per ciò con ricordi indelebili. Poi l’avevo vista risorgere nel dopoguerra”.

La mente di Vilardo è un torrente che porta con sé ricordi, curiosità, frasi, spezzoni di libri, citazioni, odori, cibi, il gusto di pietanze lontane. Il suo è un racconto leggero, piacevole, divertito. Costeggia la malinconia solo quando il discorso vira sugli affetti che non ci sono più. “Mi manca mia moglie. E l’assenza di Nanà mi è più dolorosa di quella di mio padre”.

Ma la morte è solo una fuggevole parentesi nel discorso di questo anziano maestro ancora colmo di intellettuale vitalità: ha appena finito di scrivere un romanzo, si appresta a correggerlo prima di spedirlo al suo editore.

Scuote la testa il vecchio professore quando pensa alla sua giovinezza: “Avevamo la chiara percezione che anche i fascisti avessero le mani in pasta. Sarà stato anche per questo che io e Nanà non abbiamo mai indossato la divisa di balilla”.

Secondo Vilardo un episodio, nella gioventù di Sciascia, condizionò il suo modo di percepire la mafia. E lo rievoca così: “Mi raccontava spesso di quel sindaco mafioso di Racalmuto assassinato nel corso principale del paese (Baldassare Tinebra, ndr). Non si scoprì mai il vero colpevole, anche se tutti sapevano chi fosse; in galera andò uno che probabilmente nulla c’entrava col delitto. Una cosa di apparente semplicità che si fa labirinto, sino a sfociare nel mistero. Tutti i romanzi di Leonardo, infatti, in conclusione precipitano nell’oscurità. Come il caso Tinebra”.

Quell’omicidio Sciascia lo ricorderà nei suoi libri. Quasi ne fu testimone, lui che all’epoca aveva 23 anni, trovandosi a qualche decina di metri dal luogo del delitto e nitidamente avvertendo i colpi di pistola. Ne Le Parrocchie di Regalpetra a un certo punto così scriveva: “Il sindaco del ’44, l’uomo tirato su dagli americani, lo ammazzarono la sera del 15 novembre di quell’anno; era sera di domenica, la piazza piena di gente, gli appoggiarono la pistola alla nuca e tirarono, il sindaco aveva intorno amici, nessuno vide, si fece vuota rosa di paura intorno al corpo che crollava. Era un uomo che aveva molti nemici, persino aveva litigato con uno dei capi della mafia siciliana, furono soci in una speculazione mineraria e poi nemici”.

In queste righe si avverte chiaramente il tanfo di un potere guasto. Che spesso nella Sicilia di quel tempo si colora di rosso, rosso sangue. Continua Sciascia: “Gli americani, che subito si abbandonarono ai consigli dei vecchi uomini politici sopravvissuti più ai compromessi che alle persecuzioni del fascismo, designarono quest’uomo a sindaco di Regalpetra, gli rovesciarono davanti un mucchio di am-lire, lo investirono di assoluta autorità. Nonostante le liti e il resto, forse avrebbe potuto campare fino a morire di apoplessia, ché prevedibilmente a una simile morte lo portava la sua natura sanguigna e collerica; ma i suoi amici gli amici dei suoi amici e gli americani a più violenta morte lo destinarono chiamandolo a quella carica”.

Certe pagine e certi personaggi sciasciani hanno dato a una parte della critica il pretesto per ricamare su una presunta fascinazione esercitata dai padrini sullo scrittore di Racalmuto . “Una completa falsità oltre che una stupidaggine clamorosa – si indigna Vilardo -. E’ stato sempre contro la mafia e i suoi metodi. Amava moltissimo suo nonno che si chiamava Leonardo Sciascia Alfieri. E lo sa perché? Perché era uno che sapeva tenere testa ai mafiosi e non aveva paura. Capomastro in una zolfara, Nanà mi raccontava suo nonno come un uomo dal polso fermo che riusciva a governare la miniera senza consentire intromissioni a sgherri e gregari delle cosche, arginando le vessazioni. Sapeva come fare, il capomastro. Nanà di ciò andava fiero e diceva: ‘Mio nonno non gliela diede mai vinta’. Vado avanti. Il mio amico non sopportava, ad esempio, che durante la processione del Corpus domini a sostenere le asticelle del baldacchino fosse tutta gente di rispetto e a portare l’ombrellino liturgico il padrino del paese. Ecco, detestava tutto questo. E ne dava in qualche misura colpa alla Chiesa; perché i clan questa accondiscendenza delle tonache la interpretavano come una forma di complicità, di collusione, di intesa”. E, perché no, di assoluzione.

Sciascia già in gioventù era un rapace spettatore di quel teatro che era la Sicilia con i suoi riti, il suo tragicomico “pirandellismo di natura”, la sua violenza, la sua crudele solitudine, le prevaricazioni come una colata di ingiustizia, l’iniquità come una colata di morte. Temi che entreranno nella sua officina narrativa diventando pagine con cui ha fornito a intere generazioni uno sguardo nuovo (spesso impietoso) sull’isola che diventerà “metafora del mondo”.

“Comunque respiravamo quell’aria ammorbata di tensione, c’è poco da fare; ci era chiaro che la mafia era e sarebbe stata una colossale fabbrica di sopraffazione. Lo capimmo subito. Ricordo che a Caltanissetta ogni tanto giungeva dal suo paese, da Villalba, don Calò Vizzini, quello che era considerato il capo assoluto di Cosa nostra. Andava a sedersi al circolo dei civili, di pomeriggio, su una poltrona a lui riservata. E io e Nanà, studentelli, assistevamo alla processione dell’èlite nissena che andava a baciare la mano a don Calò, a rendergli omaggio, a far pratica di sottomissione. E non c’è da meravigliarsi di questo, cioè del fatto che l’alta società s’inchina al rozzo e tozzo mammasantissima. Sciascia mi diceva che quando la mafia si imborghesisce (e ci vuole poco con le ricchezze che muoveva e muove) poi sforna avvocati, medici, imprenditori, professionisti. Insomma, quelli che si chiamano colletti bianchi. Cambia la forma del mafioso, ma la sostanza resta sempre quella”.

Vizzini sarà poi trasferito nella trama de Il giorno della civetta col personaggio di don Mariano Arena. Quello della suddivisione antropologica dell’umanità in uomini, mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà.

“Quella che ho appena descritto – spiega Vilardo – era la mafia che Sciascia scrutava, anche da giovane; ma obtorto collo osservava anche la cieca violenza delle cosche che levarono di torno a pistolettate il sindaco di Racalmuto. Ma certo Sciascia, di questo, non rimaneva affascinato; secondo me manteneva lo stesso spirito, lo stesso distacco di un entomologo che scruta gli scarafaggi al microscopio”. La lente di ingrandimento, in quel caso, era l’intelligenza vivida e acuminata di chi “già da ragazzo mostrava un intelletto non comune”.

Molti anni dopo Sciascia non ha ancora placato la sua curiosità sull’argomento. E’ già un narratore affermato quando, per il tramite di un suo amico avvocato, ottiene un incontro con Giuseppe Genco Russo, padrino di Mussomeli e a capo della “cupola” dopo la morte di don Calò Vizzini. Un dialogo interessante, sapido e brillante ne venne fuori, pubblicato nel 1965 da Mondo Nuovo.

A “don Peppi”, pare che Sciascia abbia lasciato questa dedica su una copia de Il giorno della civetta: “A uno zio, questo libro contro gli zii”. Mentre il temutissimo uomo d’onore fornirà a Sciascia questa definizione della mafia: “Noi ora ci stiamo conoscendo, stiamo bevendo la birra e chiacchierando amichevolmente. Lei è di Racalmuto. Domani, mettiamo, a me capita di dover sbrigare qualcosa a Racalmuto: mi ricordo che c’è lei, vengo a trovarla, lei mi agevola come può nella cosa che ho da sbrigare. E poi a lei può capitare di aver qualcosa da fare a Mussomeli: cerca di me, e io sono a sua disposizione. Siamo diventati amici, no?… Questo è tutto: sarà mafia, non sarà mafia, non lo so… Io dico: è amicizia… Persone che si incontrano, che si prendono reciprocamente in simpatia, che si aiutano… C’è una lite: accordiamola; un aiuto da dare: diamolo… Se questa volete chiamarla mafia, io dico: sono mafioso. La verità è che nessuno ha capito niente fino ad ora”.

Questa intervista è inserita nel libro  “La storia della mafia” di Leonardo Sciascia (Barion 2013) 

 

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