In vista della prima “Festa degli Emigrati” a Racalmuto prevista per il 6 luglio, Giovanni Salvo ricorda i poeti Racalmutesi che hanno affrontato il tema dell’emigrazione, da Pedalino Di Rosa a Eugenio Messana
Iu partu ppi l’America luntana nun sacciu unni mi porta la furtuna.
Nei secoli l’espatrio per bisogno è stato sempre sdradicamento, violenza, scippo dalle proprie radici, ricerca di fortuna. La parola emigrazione in Sicilia è più di un fenomeno sociale. Il termine racchiude dei significati intrinsechi come: pena, cattiva sorte, nostalgia, tormento, fuoco dell’anima, dolore.
Con queste parole hanno riassunto il fenomeno le anime sensibili dei poeti di Racalmuto, quando la sensibilità nasce dal profondo e dalla passione dei sentimenti. Uno dei primi ad occuparsi di emigrazione fu Eugenio Napoleone Messana, nelle vesti di poeta, allor quando dedicò un intero libello al tema dell’emigrazione dal titolo Lu piniu di l’emigranti.
Esistono anche dei versi eccellenti a firma di un altro bravo vate, ossia Giuseppe Pedalino Di Rosa. Per il “notaio che verseggiava”, come lo definì Sciascia, la nostalgia e la pena muta rappresentano il vero tormento di chi lascia la terra madre.
Un testo altrettanto toccante da ricordare sul tema è attribuibile alla firma di Luciano Polifemo, musicato negli anni Ottanta dal gruppo “I cantori di Regalpetra”. La canzone parla della “via della speranza”, la strada che i siciliani auspicano per i loro cari emigrati. Una via da percorrere a ritroso per tornare presto alle proprie radici. In una Sicilia dove tutto resta da sempre com’è, con le sue mille difficoltà, scordata, se non addirittura ripudiata, da chi avrebbe il potere di fare e non fa.
“Sicilia terra scurdata – scrive Polifemo nel suo testo – terra lassata e ripudiata… la genti chi ta lassatu pi lu travagliu avi a turnà”.
L’augurio che la nostra gente potesse ritornare per ristabilirsi in realtà poi non è mai accaduto. Un tempo si cercava lavoro in altri Stati o Continenti con l’intenzione di risiedervi per un periodo minimo necessario. Il termine emigrante è legato certamente alla parola speranza, quale ricerca di una condizione di vita migliore, coincidente con l’ossimoro desiderio di partenza e ritorno.
La via di un sogno che estirpa dagli affetti più cari, che nonostante tutto relega ad una condizione di eterno ospite, in una nazione che non sarà mai la tua.
“Lu gaddru canta nni lu so munnizzaru” ossia il gallo canta nel luogo in cui è cresciuto, anche se questo potrà apparire un posto sudicio.
I nostri emigrati, grandi lavoratori, inviavano parte dei loro guadagni alle proprie famiglie, sia per estinguere i debiti contratti per affrontare la partenza, che per investire nella propria terra, posto in cui speravano sempre un giorno di potere tornare. Fuggiti per povertà ebbero comunque un grande ruolo nell’economia degli Stati che li accoglievano e quindi nel processo di modernizzazione e anche per l’italia, per i soldi che inviavano alle famiglie. Possiamo dunque tranquillamente affermare che il patimento di alcuni, dovuta dalla mancanza di lavoro, ha creato grandi periodi di ricchezza per altri, ciò specialmente in Sicilia.