L’INTERVISTA Le estati a Porto Empedocle, l’infanzia accanto al nonno: la giovane scrittrice è tornata in Sicilia per presentare il suo romanzo d’esordio in gran parte dedicato al nonno. Domenica scorsa ha partecipato assieme alla sorella Alessandra, attrice, e al padre, il regista Rocco Mortelliti, alla giornata conclusiva del festival della Strada degli Scrittori. Oggi a Favara, a 98 anni dalla nascita dello scrittore, cerimonia di intitolazione dell’istituto comprensivo al papà del Commissario Montalbano
Passeggia, si guarda intorno, c’è caldo e pensa al mare della Scala dei Turchi. Tornare a Porto Empedocle significa tornare indietro nel tempo, a quando era bambina e andava al mare e a spasso col nonno, Andrea Camilleri. Le viuzze di questo paese, gli odori, le voci e la parlata di ambulanti e di ragazzini che giocano, le campane della chiesa, l’odore pesante del porto, ci riportano in un paese immaginario che si chiama Vigàta. Sembra quasi che a un certo punto possa persino spuntare il Commissario Montalbano. E lo si incontra, in effetti, passeggiando nel cuore della piazza. Quello vero, coi baffi. Sta lì, nel corso principale, immortalato nella statua realizzata dallo scultore Giuseppe Agnello che tanto piacque a Camilleri perché l’artista era riuscito a realizzare il volto che lo scrittore aveva in testa.
Hai ragione: l’amore per i nonni è unico, e specialmente quando si ha la fortuna di crescere con loro, di osservarli nei piccoli gesti, di scrutare i loro sguardi, di assorbirne saggezza antica. Da qualche parte credo di aver letto che tuo nonno, Andrea Camilleri, non riusciva a scrivere senza sentire il rumore dei nipoti. È così? Ogni tanto ti chiamava “Gnagna”, giusto?
«È così. Nonno ha sempre lavorato con noi nipoti accanto, diceva anzi che il silenzio lo deconcentrava. Ho passato gran parte della mia infanzia a giocare sotto la sua scrivania o seduta accanto a lui. Pigiava le dita sui tasti della macchina da scrivere rossa, rileggeva, sbanchettava. Ogni tanto faceva una pausa e si inseriva nei miei giochi, mi raccontava favole inventate da lui, disegnava. Non so come tu lo abbia scoperto, ma Gnagna sono io. Ha cominciato a chiamarmi così mio cugino Francesco da piccolino, perché non era capace di pronunciare il nome Arianna. Nonno ogni tanto lo usava per prenderci in giro».
Camilleri ci ha insegnato a guardare la Sicilia con occhi nuovi. Qual è il tuo rapporto con quest’isola?
«Un rapporto splendido. Per me la Sicilia è casa. Credo di possedere l’amore per questa terra nel Dna. Io e mia madre siamo nate a Roma, eppure ne sentiamo il richiamo e ci torniamo non appena possiamo. Sarà il canto di Maruzza?».
Già, il canto sensuoso delle sirene come nelle pagine di Maruzza Musumeci, appunto. Ma torniamo a Porto Empedocle, anzi a Vigàta, cuore di tutte le storie di tuo nonno. Raccontaci le tue estati qui…
«Venivamo ad agosto, ogni anno. Quando ero piccolina c’erano anche i nonni, dai dieci anni in poi eravamo io, mia madre e Lenny, il nostro cagnolino. Scendevamo alla Scala dei Turchi scavalcando il guardrail e percorrendo una strada dissestata. A quei tempi pochi conoscevano quella meraviglia. Ricordo la spiaggia deserta, gli occhietti di Lenny che ci aspettava sotto l’ombrellone mentre io e mamma facevamo il bagno nelle pisci nette naturali di fronte alla Scala di marna bianca, i paguri, i cavallucci marini, i polpi. Era un paradiso».
A Porto Empedocle riesci in qualche modo a rinverdire le radici?
«Quando sono in Sicilia torno bambina. Entro a casa, qui dove è nato mio nonno, e rivivo scene d’infanzia, come quando mi alzavo la mattina e lo trovavo a chiacchierare con il suo amico piccione in sala prima di mettersi a lavorare. Sono ancora lì, il volatile sul tavolo che mangiucchia le molliche di pane e nonno che sorseggia il caffè. Le mie radici sono questo. La Sicilia, nonno che mi insegna il rispetto per ogni forma di vita, il profumo del mare, l’amata festa di San Calogero con i cannoni che sparano all’alba e nonno che mi dice “con te vale il detto: non ti svegli manco con le cannonate!”. Tornare in Sicilia mi permette di misurarmi con il passato e al contempo di guardare al futuro, costruendo la mia identità e il mio percorso senza mai perdere di vista il punto di partenza».