Fondato a Racalmuto nel 1980

“E chi ci dice che Dio (sotto mentite spoglie) non abbia già scritto migliaia di libri?”

Nostra conversazione con l’editore Lillo Garlisi. “Un siciliano a Milano che non ha perso né ironia né accento”. 

Lillo Garlisi

“C’è un siciliano a Milano che non ha perso né ironia né accento. Si chiama Lillo Garlisi, nato a Racalmuto e con radici a Sciacca, bocconiano della prima ora, è oggi un editore temerario e coraggioso. Pubblica libri di impegno civile, come si diceva una volta, ma anche romanzi importanti che diventano casi letterari, come “Le ferrovie del Messico” di Gian Marco Griffi. Oltre ad aver mantenuto molte caratteristiche del siciliano, ha mantenuto l’azzardo e una certa propensione ad avere il vento in testa, quella sorta di corda pazza che rende un’iniziativa commerciale o culturale unica nel suo genere, un gusto donchisciottesco per le imprese fuori tempo e un po’ leggendarie…”.

Così Gaetano Savatteri scrive dell’editore Lillo Garlisi, siciliano di Racalmuto che vive a Milano da più di quarant’anni, fondatore delle case editrici Zolfo, Laurana e Melampo. Una vita, quella di Garlisi, dedicata ai libri che abbracciano ambiti diversi, spaziando dalla saggistica alla narrativa, dalla politica e l’attualità ai gialli, con un comune denominatore: raccontare storie. Lillo Garlisi, come la storia dei suoi libri, risulta essere un punto di riferimento dell’editoria contemporanea. Si è sempre definito il più grande scrittore contemporaneo che non ha mai scritto neanche un libro. Ma andiamo a conoscerlo da vicino…

Quando nasce il tuo amore per i libri?

Ho sempre letto, sin da piccolissimo. La mia passione per la lettura nasce con i fumetti che divoravo voracemente nei primi anni delle scuole elementari, nella seconda metà degli anni sessanta. Ricordo fumetti “a strisce” che oggi sono scomparsi: Akim e Blek Macigno, per esempio. Da lì nasce il mio amore per le “storie”. Il passaggio ai libri è stato un passaggio naturale.

Ricordi il primo libro che hai letto?

Il primo libro di cui serbo traccia mentale è un libro illustrato che raccontava la storia di Tarcisio, un giovane patrizio dell’antica Roma che per avere portato l’eucarestia ai cristiani perseguitati fu picchiato e lapidato. Tarcisio morì e fu fatto santo ma io ne uscii traumatizzato. C’erano tutte le premesse perché abbandonassi ogni forma di lettura. Così non fu: mi vennero in soccorso fortunatamente i libri di Verne e Salgari che diventarono la mia passione.

Hanno scritto di te: “Ha dedicato una vita ai libri senza scriverne uno”. Sono certo che dentro un cassetto ci sia un tuo libro, mi viene in mente la stessa intuizione che ha avuto Elvira Sellerio quando ha letto l’introduzione di Gesualdo Bufalino sul “Tempo in posa”, un catalogo di fotografie dell’800…

Confesso di avere cominciato a scrivere un libro all’età di 30 anni (quindi oramai più di 30 anni fa…). Complice la prima estate passata in montagna (e non in Sicilia, come d’uso) cominciai a buttar giù delle pagine di un romanzo che avevo in testa. Ma dopo quel lontano agosto, rientrato a Milano, abbandonai l’idea. Quelle pagine – un’ottantina – mi sono capitate stampate tra le mani recentemente. Le ho lette e mi sono sembrate non brutte ma di una scrittura acerba. No, non saranno mai pubblicate. Di tanto in tanto mi vengono in mente delle storie che vorrei raccontare ma rimane una scrittura mentale, non mi viene voglia di metterle su carta… Continuo a collaborare a far nascere i libri degli altri, mi sembra più utile.

Sei nato a Racalmuto, il paese della ragione. Ti posso chiedere se hai conosciuto Leonardo Sciascia

Lillo Garlisi

Sono nato a Racalmuto e lì ho vissuto fino agli otto anni, poi la mia famiglia si è trasferita a Sciacca. Sempre nella provincia di Agrigento ma in una Sicilia completamente diversa. Le mie radici racalmutesi in verità le ho riscoperte pienamente negli ultimi anni, vivendo fuori dalla Sicilia. Che dire: Ulisse alla fine ritorna sempre a Itaca…Ho conosciuto e incontrato Leonardo Sciascia a Milano, città che lui amava. Non millanto amicizia con il Grande Scrittore, impossibile non foss’altro che per la rilevante differenza di età. L’ho incontrato alcune volte (tramite conoscenze racalmutesi comuni) e i suoi lunghi silenzi ispiravano solo grande soggezione nel giovane che ero. Nei momenti conviviali – sempre in piccoli gruppi di soli siciliani – lo ricordo taciturno, con la sigaretta sempre accesa, gli occhi due fessure e molto attento alle conversazioni che si svolgevano. Interveniva di rado e sempre con poche parole. Dava l’impressione di una grande concentrazione volta a immagazzinare ogni singolo spunto che potesse sorgere dalle chiacchierate. Ricordo con un sorriso in particolare un viaggio in macchina con lui (e altri), una sera. Lo stavamo accompagnando in albergo. A un certo punto mi chiese: “ma lei che fa a Milano”. Io risposi: “studio qui, faccio l’università”. E lui replico: “ah”. Rido ancora pensando alla mia unica conversazione vis-à-vis con un monumento della letteratura!

Sei stato 18 anni in Sicilia e 45 a Milano. Cosa hai provato la prima volta che sei arrivato nella capitale economica del Bel Paese?

Per un diciottenne che alla fine degli anni settanta arrivava nella Metropoli del Nord l’impatto era sconvolgente: dalle dimensioni dei paesi dove fino ad allora avevo vissuto alla città non erano possibili neanche termini di paragone. Ricordiamo poi (e per i più giovani non è così scontato) che i livelli di informazione e di conoscenza del mondo esterno (rispetto al luogo di nascita o dove si viveva) erano infinitamente più bassi rispetto a oggi. Tutto era nuovo, tutto era inedito, tutto era non-visto. Milano – per questo ragazzo arrivato in Stazione Centrale con la valigia di similpelle – era un po’ paese dei balocchi e un pò luogo dove tutto accade e tutto può accadere. Devo ammettere col senno di poi che ho vissuto i miei primi anni in una condizione da privilegiato, da studente universitario. E questo mi ha aiutato a inserirmi, a conoscere e ad apprezzare in pieno la città e le sue opportunità.

Com’è cambiata Milano rispetto agli anni ’70?

Abissalmente. Sono arrivato in una città dall’anima ancora fortemente industriale – smog fumo nebbia – e già nei primi anni ottanta partiva la “Milano da bere”. Gli anni settanta – con il loro groviglio di contraddizioni – scomparivano insieme alla cupezza degli anni di piombo e alla creatività artistica e culturale di quel periodo. Forse è proprio questa la caratteristica immanente di Milano: il cambiamento. La capacità di cambiare pelle in continuazione rimanendo sempre sé stessa.

Dicono le parole di una celebre canzone scritta nel 1934 da Giovanni D’Anzi: “Canten tucc lontan de Napoli se moeur  ma po’ i vegnen chi a Milan”… Cosa leggi nei versi di questa canzone, l’hai mai cantata?

E’ una canzone che scherzosamente abbiamo cantato tutti a fronte dei “denigratori” di Milano. Milano è storicamente una città di accoglienza. La sua stessa posizione geografica da secoli l’ha resa e mantenuta tale, in mezzo alla pianura padana, crocicchio di popoli che vanno e vengono. In Italia non ha eguali: è l’unica città – io credo – che appartiene non a chi ci è nato ma a chi ci vive e ci lavora.

Come sei diventato editore?

Nessuna vocazione giovanile. Tutto è accaduto naturalmente e al tempo stesso per caso. Subito dopo la laurea in economia in Bocconi ho cominciato a lavorare in una azienda editoriale specializzata (editoria giuridica) con ruoli manageriali e responsabilità via via crescenti. Alcuni decenni dopo – abbandonata la grande azienda – ho avviato dei percorsi imprenditoriali. E un po’ per diversificazione delle attività, un po’ per assecondare delle mie passioni mi sono trovato – tassello dopo tassello – a costruire dei marchi editoriali. Nessun disegno preordinato. Le cose sono accadute nel tempo. A posteriori si può sempre trovare una logica, una spiegazione. Ma spiegare con il senno di poi il tutto è sempre un pò una menzogna. Perché mentire quando se ne può fare a meno?

I temi che affronti nei libri sono centrali e fanno parte di un grande progetto: con quale criterio scegli i testi da pubblicare? E per quale ragione un editore non si giudica da un solo libro, ma dal suo intero catalogo?

Il tema è appunto il catalogo: un marchio editoriale non è quello che dichiara di essere ma quello che risulta dal suo catalogo. Ogni singolo titolo deve essere un pezzo che si aggiunge al mosaico esistente. Per confermare (o anche per rettificare, delle volte) l’idea del marchio editoriale che si vuole proporre. In questa logica per ogni titolo la domanda da farsi tutte le volte non è solo se si tratta di un buon titolo. Ma anche chiedersi come contribuisce allo sviluppo del catalogo. Un progetto appunto. Un progetto che vive giorno per giorno e che non ha un punto di arrivo dichiarato.

Ogni libro nasce per un lettore, qual è il patto tra i due?

Non esiste il libro per tutti: ogni lettore ha il diritto di ritagliarsi nella magmatica e sterminata offerta editoria il proprio segmento di interesse. Quindi il patto tra il lettore e l’’editore è la chiarezza: bisogna subito dichiarare per ogni titolo di che libro si tratta e a chi è rivolto. Dare a un lettore un libro che non è nelle sue corde non è un buon affare.

Lillo Garlisi

Quali sono i libri fuori del tempo?

Il libro fuori dal tempo lo scopriamo solo … con il tempo! Diverse volte mi è accaduto di rileggere dopo anni un libro e deluso chiedermi perché lo avevo ritenuto un buon libro. Al contrario mi è successo di rileggere libri che poco avevo apprezzato e amarli con ritardo. Forse un libro fuori dal tempo è un libro che regge l’usura del tempo. Ma non ho grandi certezze su questo.

Camilleri, Berlinguer, Guarnotta, Melati, Bolzoni, Savatteri ed altri importantissimi autori, sono le voci autorevoli per promuovere la legalità…

Si, nel catalogo Zolfo sono presenti molti nomi (questi e diversi altri) che con i loro testi in termini di contributo culturale molto hanno dato e ancora possono dare. Amaramente a volte però mi chiedo quanto i libri possano servire a “promuovere la legalità”. Diciamo che in questa fase storica mi accontenterei se almeno servissero a diffondere sapere e conoscenza.

In un’intervista hai dichiarato che è importante leggere “La notte della civetta” di Piero Melati. Perché?

E’ un libro che ho amato perché ha avuto il coraggio di fare delle domande devastanti, sulla Sicilia e sull’informazione, sulla mafia e sull’antimafia. Per dirla in un altro modo: un libro sulle domande che non abbiamo voluto farci. Mi piacerebbe che fosse uno di quei libri che rimangono.

Tu accetti le sfide editoriali. Vogliamo parlare del caso delle Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi libro di 800 pagine, candidato al Premio Strega che ha raggiunto il successo con il passaparola dei lettori, libro dell’anno per gli ascoltatori del prestigioso programma radiofonico Fahrenheit…

“Ferrovie del Messico” è oramai un romanzo entrato nella storia dell’editoria italiana. E forse ha già anche un piede nella leggenda. Questo è un libro che – azzardo – rimarrà. Tanto si è detto e tanto si è scritto su questo caso editoriale. Quel che un pò mi fa sorridere è leggere ricostruzioni che fanno intendere che si tratta di un successo “casuale” di un (a scelta) “piccolo”, piccolissimo”, “microscopico” editore, senza tener conto di un contesto di ricerca e di progettazione (Laurana, Zolfo, e non solo) che ha portato alla nascita negli ultimi tre o quattro lustri di diverse centinaia di titoli. Ecco, forse un libro che mi piacerebbe scrivere è “Postille a Ferrovie del Messico”. Ma anche questo libro, con certezza, non lo scriverò.

La collana Zolfo Editore è nata nel 2019: presenta autori prestigiosi, argomenti di impegno civile, libri magnifici, curatissimi sotto tutti i punti di vista, anche nei dettagli, uno più bello dell’altro… Quanto tempo dedichi alla nascita di un nuovo libro?

Ogni libro ha la sua storia e il suo percorso. Non esiste un tempo standard. Alcuni titoli vengono progettati, lungamente discussi e magari la prima stesura dei primi capitoli arriva dopo molti mesi. I libri “di progetto” (perché questo sono i libri Zolfo) hanno una gestazione che può durare a volte diversi mesi a volte addirittura qualche anno.

Perché in Sicilia ci sono tanti scrittori, “na porta si e na porta no” e pochissimi lettori?

Rispondo con le parole che mi disse Andrea Camilleri tanto tempo fa, in una conversazione avvenuta a casa sua, a Roma. Mi disse: in Sicilia si scrive perché per scrivere basta poco, un foglio di carta e una penna; e poi perché c’è poco lavoro e tanto tempo libero. Nell’ironia delle sue parole ho colto tanta verità. Sull’assenza di lettori mi rifugio nei dati Istat: le provincie che leggono di meno sono le provincie più povere. Come si legano i nessi di causa ed effetto – e se nasce prima l’uovo o la gallina – è discorso lungo da fare qui.

Lillo Garlisi

I libri delle grandi case editrici hanno spesso molti spazi sui giornali e in TV, ricevono premi importanti, gli editori indipendenti sono quasi cancellati, trattati come figli di un Dio minore.

La questione è nota. Del resto i rapporti di forza da sempre governano il mondo, in ogni ambito. E chi è più forte tende a usarla, la forza. Gli editori indipendenti (o “piccoli”) fanno molta più fatica a trovare spazio e attenzione. Ma non è impossibile. E’ solo molto più difficile.

“Il libro appartiene a quella generazione di strumenti che una volta inventati, non possono essere più migliorati, come la forbice, il martello, il coltello, il cucchiaio, la bicicletta”…

Mille volte negli anni ho assistito al dibattito sulla “morte del libro”. Oppure alla profezia dell’avvento definitivo dell’ebook che sostituisce la carta. Al momento (e chissà per quanti altri secoli ancora) il formato “classico” del libro che abbiamo conosciuto e conosciamo resisterà ed esisterà.

Quanto è importante l’uso della parola nel mondo in cui viviamo?

Viviamo di storie. Da sempre l’uomo racconta storie. E il libro nasce come strumento per “fissare” le storie, strappandole alla tradizione orale che per millenni ha tramandato le storie. E ancora oggi – epoca che ha valorizzato l’immagine come strumento di comunicazione – la parola rimane momento centrale di relazione tra le persone.

Cambia qualcosa se Dio si mette a scrivere?

E chi ci dice che Dio (sotto mentite spoglie) non abbia già scritto migliaia di libri?

Jorge Luis Borges afferma che non è stato Dio a creare il mondo, ma sono i libri ad averlo creato. Cosa ne pensi?

“L’anima e il corpo sono una sola e unica cosa”, diceva Spinoza. Un rabbino disse una volta che conosceva almeno 42 definizioni di Dio. Finì in un lager nazista. I libri raccontano storie. Ma raccontare è sempre creare o ricreare. Corpi, anime, relazioni, fatti, idee esistono in quanto raccontati. Scrivere è un atto prometèico: è volere creare un mondo, il mondo.

C’era una volta, e c’è ancora, l’Università della Bocconi dove hai studiato. Se uno dice che ha intrapreso gli studi in quell’università lo assumono subito… E’ ancora così?

L’Università Bocconi rimane una scuola di eccellenza. E le prospettive occupazionali per il neo laureato rimangono buone. Rispetto al passato vedo che mentre gli “stranieri” prima erano siciliani, pugliesi, abruzzesi, etc, oggi c’è un respiro internazionale, con una quota significativa di studenti che arrivano da altre nazioni europee (e non solo). Forse oggi – sempre rispetto al passato – si tende a una formazione sempre più “specialistica” a scapito di una cultura economica più “generalista”. Ma è nello spirito dei tempi. E comunque non voglio rischiare di avventurarmi in un discorso da anziano (“ai miei tempi”).

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Ho in mente una tonnellata di progetti da realizzare, editoriali e non solo. E ogni giorno me ne viene in aggiunta qualcun altro. La mia priorità comunque rimane quella di far crescere e consolidare Laurana e Zolfo. Ho sempre l’idea che ci siano tante, tantissime, buone e utili cose da fare. “La mia impresa non è difficile, mi basterebbe essere immortale per condurla a termine”. Lo diceva Borges.

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