Fondato a Racalmuto nel 1980

“Solo una donna”

Il racconto della domenica

Simona Burgio

E adesso che devo scrivere di te, mi si bloccano le parole in testa. I miei ricordi si sovrappongono ai tuoi, la realtà si mescola con le mille storie che mi hai raccontato e non so più da che parte iniziare per spiegare la donna che eri. Il momento preciso in cui ho cominciato a chiamarti zia, anche se non eri una mia parente di sangue, non lo ricordo con precisione. D’altronde, del primissimo periodo in cui abbiamo iniziato a frequentarci – avrò avuto quattro o cinque anni – non rammento granché. Da quando ho memoria, tu ci sei sempre stata e sei sempre stata mia zia, la preferita. Mi rivedo bambino, seduto sul tuo divano a guardarti mentre sistemavi orli, imbastivi camicie, accorciavi maniche. Di tanto in tanto alzavi gli occhi ed esclamavi: «Paolino, ho quasi finito… te la preparo la merenda, gioia mia?» Sento ancora gli odori della tua casa – bucato fresco, biscotti appena sfornati, colonia al muschio bianco. E il profumo della lacca per capelli che hai usato per più di quarant’anni, la Splend’or, sempre quella, un paio di spruzzi sul ciuffo ribelle che tendeva a ricadere sulla fronte. Andavamo d’accordo, noi due.

Fin da piccolo hai intuito di me ciò che io stesso avrei compreso soltanto nell’adolescenza e che i miei genitori avrebbero finto di accettare nell’età adulta. E nonostante tutto, per te, io sono sempre stato solo Paolo, mai il finocchio, l’invertito, il frocio, come amavano chiamarmi in molti. Di te, invece, io ho sempre intuito poco. Ho aspettato che fossi tu a svelarti un pezzetto per volta, gustandomi la costruzione di quell’intreccio intricato della tua vita attraverso le tue parole. Avevi un modo tutto tuo di scegliere i termini, articolare le frasi, coniugare italiano e dialetto. La tua abilità narrativa mi incantava. E pensare che non eri andata oltre la quinta elementare. Se mamma avesse saputo che ripagavo i suoi sensi di colpa perché mi affidava ogni pomeriggio a te, la vicina di casa, con un’infinita gratitudine nei confronti del destino che la costringeva a lavorare, ci sarebbe rimasta malissimo. Mai bambino è stato più felice di frequentare così poco la propria famiglia. Per essere sinceri, ho sempre considerato i miei genitori la mia seconda famiglia, perché per me, la prima famiglia, quella del cuore, dell’affetto senza costrizioni parentali, sei stata tu. Oggi non perdo solo un’amica, una confidente, una persona cara, ma un padre, una madre, una sorella. Morendo, mi lasci orfano dell’unico affetto che mi abbia mai accompagnato, sostenuto, spronato senza vincoli e condizioni. Da dove si inizia a scrivere un elogio funebre? Non sono bravo come te, con le parole. Sono sicuro che in questo momento starai ridendo, vedendomi alle prese con questi fogli. «Elogiare una vita imperfetta come la mia?» Mi sembra di vederti mentre lo stupore ti fa sollevare il sopracciglio destro e allargare impercettibilmente le narici, come se dovessi a fatica contenere una risata. Hai sempre rifuggito i complimenti con ironico sospetto. D’altronde te l’hanno raccontata così, la tua vita. Imperfetta, sbagliata, sprecata.

Quante volte te l’ha gridato tuo padre quel bastarda che tanto odiavi? Bastarda e madre di bastardo è stato il suo commiato. Eppure, quello che mi ha sempre colpito nei tuoi racconti è stata la mancanza di odio con cui ti riferivi ai tuoi genitori. Li chiamavi genericamente loro, con distacco pacato. Avevi accettato la loro aridità emotiva, nonostante ti fosse costata cara. Quando mi parlavi dei tuoi sedici anni – incinta, senza un soldo e senza una casa – sentivo l’odio montarmi dentro. «L’orgoglio per gli Scalisi era più importante del destino di una figlia ribelle: l’onore della famiglia andava risanato gettando via la mela marcia» tentavi di spiegarmi. «La gramigna è pianta infestante. Va sradicata senza pietà, era solita ripetere mia madre» aggiungevi, tra un’imbastitura e l’altra. Gli Scalisi, quanto li disprezzavo. Tu, invece, li giustificavi. «Erano altri tempi… la mia colpa è stata farmi mettere incinta da un poveraccio e rifiutare un matrimonio riparatore. Avevo scelto con la mia testa, ma in fondo ero solo una donna» mi hai detto più di una volta. La loro unica accortezza, prima di sbatterti fuori casa, era stata contattare una lontana parente che abitava a Milano perché ti trovasse un alloggio e, forse per sincerarsi che partissi sul serio, accompagnarti in stazione. Dopo di che mai si sono chiesti che fine avessi fatto. A Milano avevi trovato inaspettatamente il calore di una vera famiglia. Zia Clara ti aveva accolta come la figlia mai partorita. Durante i mesi della tua gravidanza ti aveva nutrita, curata, amata con una tenerezza a te sconosciuta. Hai lottato con tutte le tue forze per non perdere il bambino. Forse per un attimo hai persino creduto di riuscire a crescerlo da sola, ma negli anni sessanta la realtà per una ragazza madre non era così semplice, neppure nella moderna Milano. Zia Clara era riuscita a metterti in contatto con una suora, sua amica d’infanzia: il bambino sarebbe nato presso la clinica gestita dalla sua congregazione religiosa e dichiarato subito adottabile. C’era già una coppia rispettabilissima che l’avrebbe preso con sé. «Gente per bene e affettuosa» avevi preteso, con le lacrime agli occhi. E così era stato. Tuo figlio è stato cresciuto nell’amore e tanto ti è bastato per perdonarti di averlo lasciato andare.

Avevi preso la decisione giusta. Non so come, eri riuscita a estorcere alla suora il cognome dei genitori adottivi di Pietro – così avevi chiamato tuo figlio – e non li avevi persi di vista. Ti eri persino fatta assumere come inserviente nella scuola privata che il bambino aveva frequentato, dall’asilo fino alle medie. Eri rimasta là a osservarlo crescere, senza mai imporre la tua presenza. Eri sfruttata e mal pagata, ma ti bastava guardarlo stare bene per stare bene a tua volta. Quando Pietro ti chiamava signorina Vittoria, tu ti scioglievi come se ti avesse rivolto le parole più dolci del mondo. Una volta ti ho chiesto perché non avessi mai svelato a tuo figlio la tua vera identità. «Non volevo strapparlo a una madre che adorava» mi avevi risposto. In nome dell’amore per quel figlio, che mai ti ha conosciuta come mamma, hai affrontato le pene dell’inferno, ma scommetto che neppure una volta te ne sei lamentata. Poco dopo la nascita di Pietro hai perso zia Clara, l’unico affetto che ti legava alla tua famiglia di origine. Hai scritto un telegramma ai tuoi per informarli del decesso. Forse speravi in una riconciliazione. La loro risposta era stata lapidaria. Per te pure noi morti. Stop Le difficoltà ti hanno sempre trovata vigile e combattiva. Ciò che avrebbe piegato il più possente tra gli uomini, non ha scalfito minimamente te, una donnina di un metro e sessanta scarso. Da sola hai affrontato il tarlo dell’infamia e del pregiudizio. Ne sei uscita sempre vincente.

Vittoria non è solo il tuo nome, ma anche il tuo karma. Quando Pietro aveva terminato le medie, era venuto a salutarti, regalandoti un carillon, da cui non ti saresti mai più separata. «Aprilo, c’è una sorpresa» ti aveva esortata, dandoti per la prima volta del tu. Incapace di parlare, ne avevi sollevato il coperchio. Una boccetta di essenza al muschio bianco campeggiava al centro, accanto a una piccola ballerina che volteggiava sulle note di Chopin. L’avevi stretto a te, piena di gratitudine per quel gesto di affetto inaspettato. Quello sarebbe stato il vostro primo abbraccio e il vostro ultimo incontro. Vivere a Milano senza vedere tuo figlio non aveva più senso. Avevi deciso allora di rientrare in Sicilia, a Palermo, dove pensavi di ricominciare una seconda vita. Là hai incontrato tuo marito. «Un rapace travestito da agnello» l’hai definito più volte. Non hai resistito al suo fianco che un paio di anni, anni di soprusi, umiliazioni e violenze.

Sei stata una delle prime donne di Sicilia a ottenere il divorzio. Palermo era ormai una terra estranea, ostile, così hai deciso di trasferirti proprio qui, dove tutto era iniziato. Incurante degli sguardi malevoli che hanno seguito il tuo rientro in paese, hai sempre camminato a testa alta, salutando tutti con gentilezza, come se non ti accorgessi affatto delle frasi sussurrate a mezz’aria al tuo passaggio. Hai vinto ancora una volta: il biasimo ha lasciato ben presto posto alla cortesia e, infine, all’aperta simpatia di molti tuoi compaesani. Sei diventata una delle sarte più apprezzate dalle signore della Licata bene e una confidente per molte ragazze che sognavano di fuggire via. È all’alba di questa tua terza vita che ti ho conosciuta. Mi piace pensare che con me il destino abbia voluto risarcirti del figlio che anni prima ti aveva tolto. Siamo stati l’uno il dono nella vita dell’altra. Non ho mai conosciuto nessuno di così energico e positivo come te. Persino negli ultimi mesi della tua malattia, un cancro che non ti concedeva tregua né di giorno né di notte, ti ho vista sorridere delle piccole cose che la tua Terra ti regalava: un raggio di sole a scaldarti il viso, un bocciolo di rosa appena fiorito. Hai affrontato con pari dignità vita e morte. L’unico motivo di sollievo all’infinto dolore di averti perduta per sempre è essere riuscito a impedirti di congedarti in solitudine.

Dopo un’iniziale ritrosia – sei sempre stata una lottatrice solitaria – hai accettato che mi trasferissi da te. «Pietro, sei qui?» ti ho sentito sussurrare allo stremo delle forze. «Sì, sono tuo figlio, sono qui» ti ho risposto. E non mentivo. Mi hai rivolto il sorriso più dolce che abbia mai visto sul volto di una madre e, cullata dalle note del tuo amato Chopin, ti sei abbandonata all’abbraccio consolatorio della morte. Cosa dirò domani alle tue esequie che chi ti amava non sapesse già? Zia Vittoria, eri vita, gioia, amore. Eri grazia e forza, caparbia e gentilezza. Sei stata una compagna di viaggio preziosa, la migliore che potessi sperare di incontrare. Sarò sempre grato al destino per avermi concesso il privilegio di camminarti accanto. Possa tu riposare in pace.

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Racconto secondo classificato ex aequo alla settima edizione del Concorso letterario nazionale “Raccontami, o Musa…”, bandito dalla Associazione culturale Musamusìa di Licata, presieduta da Lorenzo Alario, in collaborazione con la testata giornalistica online Malgradotuttoweb. Direttrice artistica del Concorso letterario la prof.ssa Angela Mancuso. Presidente della giuria Raimondo Moncada

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