Nei giorni della memoria, a 32 anni dalla strage di Capaci, Malgrado Tutto pubblica stralci di uno degli ultimi capitoli del romanzo scritto da Felice Cavallaro sulla storia d’amore tra Francesca Morvillo e Giovanni Falcone. Una storia d’amore in tempo di guerra, come si legge nel sottotitolo del testo edito da Solferino.
È la loro storia d’amore che Francesca ripercorre tante volte negli ultimi giorni, stretta al suo Giovanni in abbracci che vorrebbe non finissero mai più. Lo rivede all’uscita da un negozietto di Trapani, mentre le porge in dono la paperella, davanti alla cabina telefonica, lei col cerchietto sul capo. Un flash seguito dal primo casuale incontro all’ingresso del Palazzo di Giustizia di Palermo (…). Poi, il passaggio in macchina al Centro Arrupe. La telefonata del finto Alfredo. L’azzardo dell’appuntamento in libreria. La sorpresa al convegno dell’USIS. Il primo abbraccio in macchina. E ancora le loro mani che si intrecciano nel bar dove Giovanni arriva dall’America con un’altra paperella, poi riposta nella teca di via Notarbartolo. “Appena atterrata con volo proveniente da Trapani e New York”. Ma i riflessi di quella teca abbagliano, deformano, offuscano il cielo, evocano l’Addaura, la bomba, il dormiveglia del suo uomo steso a terra e la disperazione vissuta dalle donne che lei ha confortato davanti a bare avvolte dal tricolore. Strazi per un attimo sovrapposti alla gioia delle nozze in municipio, al brindisi con i parenti, all’allegria di Mosca, alla fuga in Grecia, alla sorpresa di Praga. “Mai visto così spensierato…”. Poi, la spilla al petto di Emanuela. “Mi prometti che la porterai tu?”. E la madre di Agostino che la sfiora. “Sei luminosa come questa stella”.
Dov’è Laura? Dov’è Giovanna? Dov’è Rita? Dov’è Agatina? Dove sono le mamme di Antiochia e Zucchetto? Dove sono le donne di Giuliano e Guazzelli? Di Terranova, di Costa, di Chinnici, di Saetta, di Cassarà? Dov’è Irma? Dov’è Giuseppina? Dove sono le vedove di Mattarella e di La Torre? Dov’è la mamma di Livatino?
È un accavallarsi di profili addolorati, un’altalena fra gioia e sconforto che la accompagna pure quando Giovanni passa dall’Ergife al volo, catturandola per la loro vacanza a Favignana. Si lascia dietro i volti dei candidati nei quali rivede sé stessa giovane, all’esame del 1968, quando mai avrebbe potuto immaginare quanti rischi potesse riservare il futuro per lei, per tanti suoi colleghi, per il suo uomo. Che ne sanno questi ragazzi freschi e stanchi di anni affondati fra i libri della vita di un magistrato nelle trincee più esposte. A tratti vorrebbe dirglielo, metterli in guardia, rivelare l’ansia che si porta appresso chi ha visto cadere amici e colleghi, agenti, uomini politici, giornalisti, sacerdoti, colpevoli di tenere la schiena dritta e professare la fede della verità. Ma come avrebbe potuto confidarsi così con l’ultima candidata che le porgeva il tesserino, un po’ timida. “Lo firma lei, dottoressa?”.
Le è rimasto impresso il nome, Marcella, un sorriso solare e un candore da non violare evocando sofferenze e strazi che Francesca spera siano ormai storia passata anche per lei e per il suo Giovanni, finalmente in corsa verso la vacanza, le mani strette. Prima sulla blindata, diretti a Ciampino. Poi sul Falcon da dove, ormai planando fra costa e mare di Punta Raisi, riesce a diradare la foschia dell’orrore ritrovando con la memoria il porticciolo e la terrazza del Meligunis, l’albergo di Lipari. “Mi sono innamorata del tuo sorriso”. “E io, la prima volta, del tuo candore”.
Atterra, rallenta e frena rumoroso l’aereo mentre Francesca sospira pensando alla fine dei tormenti. Perché́ accanto a sé ha l’uomo che esce da solo dal ministero e le va incontro senza scorta. Passeggiando per Campo de’ Fiori dove lei schiaccia il bottone della giacca. Poi lo bacia, felice, fra la carbonara, il vino fresco, l’agenda della vacanza. “Segno, 23 maggio”.
Scendono dalla scaletta salutando Costanza, Montinaro, Schifani e Dicillo, vigili sotto il Falcon. Quasi inciampa Falcone. Nulla. Solo una svista. Un attimo e si riprende. Ma la giacca s’inceppa su una vite del corrimano e un bottone dorato si stacca, salta, vola, rotola via.
Come una pietruzza già lontana, mentre altre ne attrae graffiando l’asfalto della pista in un vortice di schegge impastate a sassi incollati via via. Solcando come artigli ferrosi di antichi aratri la crosta dissodata, fusa in una sfera informe, sempre più gonfia, carica di un odio che ne alimenta moto e volume. E corre, scorre, s’allarga in una valanga nera, come montagna che viene giù, come vulcano esploso dalle viscere di un pianeta sfregiato. Presagio di uno schianto, di un lampo in cui ogni miraggio s’annulla cancellando cielo e terra.
Sfrecciano volanti e ambulanze fra lampeggianti ed echi di sirene sperdute nella catastrofe di una voragine che tutto ingessa quando le pietre sputate dal ventre dell’inferno ricadono sulla devastazione di un deserto senza anima.