Fondato a Racalmuto nel 1980

Dedicato ai genitori del nostro tempo

Ecco a cosa serve la scuola

Valeria Iannuzzo

Ho visto più fiori sui social per il diploma di terza media che nei cimiteri il 2 novembre. Ho visto più fiori su Instagram per lauree telematiche in scienze motorie e psicologia che sull’altare della chiesa del Monte. Ho visto più fiori per i diplomi di maturità su Facebook che negli ospedali per la nascita di un bambino. Ho visto molti fiori, tante facce felici, parecchi genitori orgogliosi di condividere i momenti più belli della vita dei propri figli. Ho visto genitori presenti, solleciti, attenti. Ho visto genitori.

Sono i genitori del nostro tempo, gli stessi che accompagneranno, con buone probabilità, i propri figli al liceo il primo giorno di scuola. Giusto per condividere. Sono gli stessi che, con la stessa probabilità, si regaleranno un selfie con i neo diplomati davanti agli atenei universitari il prossimo settembre. Giusto per essere presenti. Sono gli stessi che hanno censito i voti dei propri figli per tutto il corso dei loro studi, facendone un report dettagliato, raffrontandoli puntualmente con quelli dei compagni, certi di comprendere i motivi per cui a Giovannino il prof di matematica negava sempre mezzo punto, mentre ad Anastasia ne regalava puntualmente due. Sono i genitori che chiamavano la maestra delle elementari tutte le volte che il loro bambino non riceveva un premio: “E sì maestra, lo so che mio figlio non ha fatto bene, ma c’è rimasto male perché tutti gli altri bambini hanno avuto il premio e lui no. Lo sa, anche la nonna ha detto che lei ha sbagliato”. Sono gli stessi che convocano assemblee di classe straordinarie perché un insegnante dopo ripetuti richiami, continue sollecitazioni, calorosi inviti, interminabili lezioni di educazione civica al loro ennesimo comportamento indisciplinato, ancora meglio maleducato, li invita a riflettere in piedi in silenzio, su quello che hanno fatto. E no, i bambini in piedi non possono stare perché è una violenza. Peccato però che nessuno ritenga una violenza sottoporli ad infinite ore di prove per un saggio di ballo. No, le prove per il saggio hanno la priorità su tutto: “Sa maestra quanto abbiamo pagato per i costumi. E poi abbiamo prenotato anche il teatro”.

E con buone probabilità nessuno di loro si pone il problema della violenza quando li trascina in locali affollati in tarda serata, dove per lo sfinimento li vedi prima girare per la sala come criceti impazziti e dopo crollare sui tavoli in attesa che i loro premurosi genitori li riportino a casa. Sono quelli che li portano ancora nel passeggino nei lounge bar per fare l’aperitivo e invece di affidargli un sonaglino per intrattenerli li collocano davanti ad uno smartphone di cui nel caso migliore scoprono un uso sicuramente improprio, ma più creativo e utile per richiamare la loro attenzione: il lancio del telefono. Sono gli stessi genitori che contano le assenze, giusto per capire quanti giorni possono fare assentare i pargoli prima che sia richiesta l’ammissione a scuola con un certificato medico, incuranti del fatto che ogni giorno di scuola perduto non rappresenta solo un numero sul registro elettronico, ma tante occasioni di crescita mancate. Sono gli stessi che condividono a partire dalla prima elementare i compiti dei loro figli sulle chat della classe non per passare il materiale ai compagni assenti, ma per fare vedere agli altri genitori quanto bravo è stato il proprio bambino. Sono quelli che fermano i prof all’uscita della scuola per capire come possono migliorare il voto in matematica: “Perché vede, noi ci esercitiamo tantissimo, ma non riusciamo a prendere un avanzato, e mio figlio ci rimane male”.

Su questi genitori si potrebbero scrivere interi manuali sostenendo o stroncando le loro posizioni con teorie pedagogiche più o meno condivisibili. Di fatto abbiamo a che fare anche con questi genitori e con i loro figli, che, credetemi, non hanno nessuna colpa per il modo in cui sono stati tirati su, anzi penso proprio che siano delle vittime.

Così da un po’ di tempo, mi ritrovo a negare decisamente alcune richieste dei miei studenti, del tipo: “Maestra mi allaccia la scarpa?”. La mia risposta è assolutamente no, un no deciso, sicuro, irremovibile. In passato ho sempre aiutato i miei studenti, ma adesso no, non possono avere la sfortuna di ritrovarsi genitori immaturi e docenti accondiscendenti.

Credo fermamente che i nostri studenti debbano innanzi tutto acquisire autonomia personale, dunque posso mostrargli come si annodano le stringhe uno, due, tre, anche quattro volte. E se non ce la fanno li invito a trovare un modo alternativo per risolvere il problema. Ma lo devono fare da soli.

Ecco è da qui che dovremmo ripartire. Dovremmo ripartire dall’autonomia: lavarsi da soli, vestirsi da soli, rifare il proprio letto, prepararsi lo zaino. Perché proprio non si può sentire che una mamma della scuola media giustifichi suo figlio perché lei la sera prima non aveva controllato lo zaino. E permettetemi, non si può accettare che una madre dica “I compiti li abbiamo fatti tutti.”

Accompagnare i propri figli durante i primi anni è un dovere, potrebbe essere anche un piacere, ma non può diventare un’abitudine. I bambini hanno il diritto di sbagliare, di prendere brutti voti, di piangere per un insuccesso. E non venite a dirmi: “Sa maestra, con la pedagogista stiamo lavorando sull’autostima.”, perché a furia di pompare quest’autostima si rischia di non far conoscere ai bambini i propri limiti. E i bambini, mentre da un lato dovrebbero essere stimolati a fare di più dall’altro dovrebbero capire fino a dove possono arrivare, consapevoli non di essere inferiori ai propri compagni, ma di aver dato il proprio massimo. Ma forse prima questa consapevolezza la dovrebbero acquisire i genitori. Acquisirne un pochetto non gli farebbe assolutamente male.

Dunque, il problema si ribalta: ad essere rieducati dovrebbero essere proprio i genitori. A loro per primi dovremmo fare capire che se da un lato i traguardi vanno sostenuti e condivisi dall’altro dovrebbero far comprender ai propri figli che lo studio, i voti, l’impegno sono tutti elementi funzionali al raggiungimento di un unico obiettivo: crescere. E per crescere, crescere bene, diventare grandi bisogna imparare a camminare sulle proprie gambe, da soli, anche a rischio di inciampare, cadere, farsi del male. Perché la vita non elargisce ricompense a go go. La vita dà e la vita toglie. Ti offre il successo e poi ti lascia col deretano per terra. E la scuola serve proprio a questo a prepararti alla vita.

E così, mentre tra un post e l’altro a tema “Mazzi di Fiori e Corone d’Alloro” faccio lo scroll su Facebook – io sono vecchia e a me piace Facebook- mi sembra assai lontano quel 1987, anno del mio diploma, quando entrando nel salotto buono di una mia compagna di scuola lei mi mostrava visibilmente mortificata il suo diploma appeso e incorniciato. Guardandolo non nego di essermi mortificata anche io. Per fortuna credo di essermi ripresa subito pensando a quanto ero stata fortunata ad aver avuto due genitori che sebbene orgogliosi del mio diploma non sarebbero mai caduti in simili forme di ostentazione. E questo, mentre sento ancora forti i loro insegnamenti, mi fa stare bene, e mi ricorda sempre che lo studio, insieme al rispetto e alla buona educazione, è un dovere.

 

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