Anche per potere pedalare una bicicletta le donne hanno dovuto lottare
Anche per potere pedalare una bicicletta le donne hanno dovuto lottare. Durante la seconda metà dell’Ottocento quando comparvero i primi bicicli con la ruota anteriore molto più grande di quella posteriore, l’abbigliamento femminile dell’epoca rendeva impossibile alle donne utilizzarlo. Agli inizi del Novecento, quando furono immessi sul mercato i nuovi modelli, il problema persisteva ma alcune temerarie aggirarono l’ostacolo iniziando ad indossare i “blommers”, pantaloni da donna ispirati al modello di quelli indossati delle donne turche.
Ovviamente per quell’epoca ciò costituì uno scandalo e anche alcuni medici vollero dire la loro: andare in bicicletta per le donne era molto pericoloso poiché poteva causare stati di depressione e tachicardia. E del resto non c’è da stupirsi perché, sempre in quel periodo, altri illustri medici, sostenevano che le donne non potevano scalare le montagne perché ciò le avrebbe rese sterili. Ma pedalata dopo pedalata le donne iniziarono il loro cammino di libertà.
Nel 1891, a Castelfranco Veneto, nasceva Alfonsina Morini. La sua era una famiglia contadina che viveva nella povertà. Quando aveva appena dieci anni, il padre portò a casa una vecchia bicicletta: quel rottame, per Alfonsina divenne tutto il suo mondo e pian piano iniziò a ripararla e infine a montare in sella. La famiglia comunque osteggiava questo suo interesse. Le foto dell’epoca la ritraggono come una ragazza “piccola e minuscola, capelli corti e capricciosi intorno ad un viso paffuto con un sorriso appena accennato”. Diventata adulta si sposò con Luigi Strada e, finalmente, trovò la persona capace di spronarla a perseguire il suo sogno. Suo marito la incoraggiò sin dal giorno delle nozze regalandole una nuova e fiammante bicicletta da corsa e nel 1924, Alfonsina, diventò la prima donna a partecipare al Giro D’Italia. È passata alla storia come “il diavolo in gonnella” e fu definita “la suffragetta delle cicliste”.
Prima di lei, ma in America, un’impresa eccezionale in sella ad una bici fu compiuta da Anne Londonderry. Anne era nata a Riga nel 1870 e da piccola emigrò, insieme al padre, negli Stati Uniti. Nel 1888 si sposò con Max Kopochovsky e da questa unione nacquero tre figli. Un giorno Anne trovò lavoro: doveva trasportare cartelloni pubblicitari su una bicicletta. Lei accettò e per cento dollari divenne la testimonial di quell’azienda. Ma la sfida più grande arrivò quando decise, per 5000 dollari, di compiere il giro del mondo in bici in 15 mesi. Ci riuscì e il New York Times, nell’ottobre del 1895, definì la sua impresa come “il viaggio più straordinario intrapreso da una donna”.
La bicicletta, pian piano si è trasformata per le donne in un simbolo di emancipazione ma anche in uno strumento che ha consentito la lotta alla libertà di un popolo. Basti pensare alle staffette partigiane: donne e biciclette per combattere il nazifascismo.
La bicicletta è stata anche un potente strumento di solidarietà per le donne afghane, utilizzato da Shannon Galpin, attivista americana, che nel 2009 è stata la prima donna ad attraversare, in mountain-bike, la Valle del Panjshir in Afghanistan, percorrendo 225 chilometri. Shannon a diciotto anni venne stuprata e lasciata in fin di vita in una strada di New York. Restò traumatizzata ma con grande forza di volontà riuscì a superare il dolore di quella tragica esperienza e decise di dedicare la sua vita aiutando le altre donne in difficoltà. Per dare voce alle donne afghane e schierarsi nella difesa dei loro diritti organizzò la prima squadra ciclistica femminile a Kabul, con l’obiettivo di partecipare alle Olimpiadi del 2020 in Giappone. Shannon Galpin madre di una bambina ha dichiarato:” La mia piccola Devon è la lente attraverso cui guardo i pericoli che corro. Penso che se lei fosse nata in Afghanistan, vorrei che ci fosse qualcuno pronto a rischiare per la sua libertà”.
Nel 2012, la regista Haifaa Al –Mansour aveva realizzato il film “La bicicletta verde” che narra la storia di una bambina intelligente ed intraprendente che si diverte guidando, di nascosto, la bicicletta del suo amico Abdullah. Con grandi sacrifici, riesce a mettere da parte i soldi necessari per comprarne una. Nonostante l’opposizione e lo sdegno di tutti per questo suo “desiderio immorale” la madre resterà al suo fianco.
In una zona remota del mondo, in uno sperduto villaggio del Congo, ancora oggi, Suor Angelique Namaika e la sua bicicletta percorrono strade sterrate e fangose per aiutare le donne vittime di violenza. In quel territorio, un gruppo di guerriglieri, rapisce le ragazzine trasformandole in schiave sessuali. Alcune riescono a fuggire, altre poi vengono gettate per strada. Angelique raccoglie i loro corpi e le loro vite tentando di ricostruirle. Pedalata dopo pedalata, Mamma Angelique, raggiunge anche mogli ripudiate, figlie cacciate di casa e poi abbandonate al loro destino. Con la sua bicicletta dispensa conforto e soprattutto insegna alle vittime un mestiere per poter ottenere l’indipendenza.
Nel 2016, tra il Nepal e l’India, sulla catena dell’Himalaya, ben 500 monache buddiste, hanno lasciato nelle celle dei loro conventi gli abiti monastici, indossando un abbigliamento adeguato. Con quel gesto hanno voluto porre l’attenzione sul problema del traffico di esseri umani, in maggior parte donne. Durante il loro tour hanno incontrato funzionari del Governo e leader religiosi per promuovere non solo la parità di genere ma anche il rispetto per l’ambiente e l’importanza di una coesistenza pacifica fra le diverse etnie di quegli immensi territori. La bicicletta si è così trasformata in un mezzo non solo di protesta ma anche una pedalata verso nuovi orizzonti.