Fondato a Racalmuto nel 1980

“Senza il dialetto, lingua del popolo, si rimane prigionieri”

Nostra conversazione con Giovanni Salvo, il “Poeta Irriverente” di Racalmuto

Giovanni Salvo

Il libro di Giovanni Salvo Vuci e risunanza, Edizioni Casa Sciascia, è un libro raffinato e colto, con rimandi a scrittori, poeti e intellettuali del ‘900, con splendide illustrazioni e i preziosi contributi di Pippo Di Falco, Felice Cavallaro, Gaetano Savatteri, Giancarlo Macaluso, Daniela Spalanca, Simona Natalello e Angelo Campanella. Il testo vuole segnalare le ingiustizie che continuano a colpire il popolo.

Ne parliamo con l’autore, che è nato e vive a Racalmuto, paese di grande spirito e ironia.

Quando nasce la tua passione per la poesia?

Penso di avere scoperto la mia attitudine verso la rima fra i banchi di scuola. Ricordo, alla fine di un trimestre ero parecchio sconfortato per via di qualche insuccesso nelle valutazioni; così di getto scrissi dei versi che rispecchiavano il  malessere di quel momento sul diario scolastico. Penso sia stata una questione di sfogo. Ho coniugato successivamente questa mia tendenza con la poesia canzonatoria, di cui vi era una viva tradizione in paese. L’interesse per la poesia irriverente nasce dunque a casa dei miei genitori. A  mio padre veniva recapitata qualche poesia di denuncia, rigorosamente anonima. La leggevamo insieme cercando di scoprirne la trama, i fatti di riferimento, i personaggi presi di mira, di solito politici locali. I nomi non erano chiari, li dovevi  “smorfiare”,  afferrare fra le sapienti rime scritte ad effetto. Ogni volta che ne capivamo il senso erano risate; dopo anche rabbia e meraviglia, in base a cosa denunciato dal poeta.

Qual è il tuo rapporto con i racalmutesi?

Il mio rapporto con i racalmutesi credo sia sostanzialmente buono. Certo per chi come me si è dilettato con la causticità della poesia burlesca, qualche antipatia credo possa averla attirata. Pirandellianamente bisognava metterlo in conto; sono gli effetti della verità gridata in faccia senza indossare una maschera; avendo scelto ad un certo punto di non fare uso dell’anonimato. Conforta comunque il fatto che ad offendersi siano stati in pochi. Tutto è dipeso dalla conoscenza della tradizione e dal grado d’intelligenza dei protagonisti, bersaglio delle rime. Caratteristica della poesie irriverenti è quella che i versi vengono apprezzati quando colpiscono gli altri, meno se riguardano noi stessi.

Esiste ancora la rima irriverente nel paese della ragione?

Esiste solo un flebile tentativo, in difesa della tradizione. Quanto raccontato in Vuci e Risunanza ne è una prova. Non credo comunque che una poesia irriverente oggi possa smuovere le coscienze così come accadeva un tempo. Nel frattempo si sono persi molti valori, fra questi il sentimento dell’indignazione e del rossore.

Cosa intendi con l’espressione la lingua delle zolfatare?

Intendo un dialetto antico. La parlata autentica, essendo Racalmuto un paese antico, ricco di miniere e dunque di minatori che affollavano la piazza.

E’ vero che il dialetto è il codice del riscatto sociale del popolo, che non vuole abbassare la testa?

Il dialetto è da sempre la lingua del popolo, come direbbero i grandi poeti, senza la quale si rimane prigionieri, in catena. È la parola tramandata in dote ai nostri padri dai nostri avi, quale strumento di lotta, di libertà.

Quanta parte di Leonardo Sciascia c’è nel tuo libro?

Non credo che la mia opera sia dipesa prevalentemente dalla figura dello scrittore Leonardo Sciascia. Tranne per il fatto che i suoi libri, le sue profezie, la sua profonda ricerca della verità, hanno influenzato la mia coscienza di cittadino racalmutese.

Navigare controvento per affermare la nobiltà della lingua siciliana è un po’  questo il senso del tuo libro?

Il senso è stato quello di approfittare di pubblicare le mie poesie per parlare anche di altro; raccontare l’attaccamento che i racalmutesi hanno da sempre avuto per le parole rimate, meglio se irriverenti. Argomento che mi ha costretto ad intraprendere necessariamente un percorso controvento, non trascurando il valore del dialetto.

Perché il potere di oggi ha una forte paura della satira?

Su questa domanda devo dissentire. Non credo che l’irriverenza possa intimidire o influenzare più di tanto il potere, che ha raggiunto un tale picco d’arroganza, di sicumera, tanto da rendere la satira un palliativo. Specialmente in epoca di impunità, come quella che stiamo attraversando. Rimane dunque solo motivo di spasso, un antico ricordo di una divertente forma di protesta.

Cosa si intende per stile pasquino e pasquinate?

Le pasquinate per definizione sono satire in versi brevi, per lo più diffuse in anonimato, rivolte contro persone di potere o costumi giudicati degni di biasimo. Uscire dal fare pasquino, dunque dall’anonimato, può essere considerato un atto di sfida, di coraggio; se si vuole anche di umano narcisismo.

Un critico ha scritto che il tuo libro è “spettinato”?

Concordo pienamente. il riferimento al pettine, al disordine, penso si riferisca all’ereticità di alcuni dei testi presenti. Essendo una raccolta che racchiude diversi generi, un insieme di tratti che caratterizzano il mio intimo; posso affermare che si tratta di un libro vario, una scelta consapevole, lontana dall’uniformità tematica. Insomma una sorta di contenitore; dunque si può tranquillamente parlare, anche in questo caso, di un’ opera spettinata.

Un  tuo commento su questa frase di Sciascia: “La povera gente ha una gran fede nella scrittura, secondo te è ancora attuale questo pensiero?

Come scrisse l’autore delle Parrocchie di Regalpetra, molti in paese hanno avuto fede nella scrittura. Anche se, fra gli scrittori locali, in termini di provocazione e denuncia, nella loro penna si intravede una certa mancanza di grinta. Si tratta di stanchezza o assenza di lettori interessati, non saprei dirti. Se aggiungiamo anche qualche filone imposturale, allo stato dei fatti, di pungente, rimane tristemente poca cosa. Sciascianamente, potrei dunque affermare che di spade non se ne intravedono poi tante, caso mai qualche temperino. Confidiamo in un ritorno.

Puoi darmi una breve descrizione di alcuni personaggi di cui parli nel libro: Alfonso Scimè, Totò Garlisi, Alfonso Ferrauto, Calogero Tirone. Cosa hanno in comune?

I poeti irriverenti che cito nel libro sono racalmutesi che hanno avvertito la necessità di esprimere il loro dissenso secondo una tradizione molto radicata, un tempo efficace a contrastare l’ingiustizia e il sopruso. In comune hanno tutti quanti una profonda propensione all’eresia.

“Il contadino che parla il dialetto è il padrone di tutta la sua realta”, è una frase di Pier Paolo Pasolini?

Si è sua. C’è molta attinenza nel libro con Pasolini, anche nelle parti in cui non è chiamato direttamente in causa. È stato uno dei più grandi intellettuali italiani a farci comprendere l’importanza dei dialetti; riuscendo a coinvolgere anche l’amico Leonardo Sciascia, fino ad un certo punto scettico nei confronti di una lingua che riteneva riduttiva, in termini di comunicazione. Grande Pasolini con i suoi no, con la sua attenzione verso i deboli, verso le disuguaglianze che tolgono il pane ai poveri e ai poeti la pace.

Sui racalmutesi hai scritto: “Possiedono il sale dell’intelligenza, vedono oltre, vedono quello che c’è dietro l’angolo”. Ti chiedo: forse i racalmutesi  hanno ricevuto più sale degli altri siciliani o volevi ricordarci i salinari?

Giovanni Salvo

Parlare di sale, per dire di certa sapienza attribuibile ai racalmutesi è frutto di facile metafora. L’opportunità è data dall’abbondanza mineraria del sottosuolo; comunque non sempre tale traslazione corrisponde al vero. I Racalmutesi non possiedono più “sale” di altri siciliani; hanno comunque avuto il privilegio di vivere in un luogo fertile, dove c’è stato sempre un certo fermento culturale. La storia è stata intrisa di personaggi illustri; ciò ha reso il paese, rispetto ad altre realtà, parecchio interessante. Ritengo che questo aspetto “sapido” abbia  influito molto sul fatto che a Racalmuto si sia formato uno dei più grandi scrittori del novecento, Leonardo Sciascia.

Puoi parlare dei nostri salinari?

Certamente, sono stati uomini legati a vicende di duro lavoro, coraggio e povertà. Con il loro sudore hanno dato spunti importanti, anche in letteratura.

Chi era il marchese serra corna, è esistito veramente?

Tutti i personaggi delle poesie canzonatorie sono reali. La poesia irriverente non prevede la fantasia, se non per i casi in cui necessita di accostamenti metaforici. Così come il Marchese serra corna lo era, in quella che è una delle poesie più iconiche che la rima racalmutese ci abbia tramandato, << ‘Ngaglià la parrineddra>>. La focosa perpetua di cui un Sindaco si servì per cibare i propri desideri corporali.

Cosa si  intende per rima incatenata?

La rima incatenata per dire quanto importante sia l’aggancio fra le parole in una poesia rimata. La catena rappresenta la giusta consecutività del testo, la necessità di legare i versi attraverso una metrica armoniosa, ferma, rigorosa.

Puoi commentare questo proverbio: “Quartari, lanceddri, funtani e muli, i siciliani senza acqua e sempri suli”

In questo insieme c’è un grande paradosso, per certi versi molto attuale. Una delle tante contraddizioni che hanno ispirato la penna di molti scrittori, per dirla con Gesualdo Bufalino, nel loro luttuoso lusso di essere siciliani. Dunque nonostante il nostro territorio sia ricco di fontane, dalle quali l’acqua esce copiosa, poi la si perde fra le campagne, così nei periodi di siccità la popolazione patisce la sete. Un ossimoro, un problema che nessuno è capace di risolvere. Si potrebbe recuperare l’acqua con invasi, (lanceddri e quartari). L’acqua delle gebbie consente di abbeverare anche gli animali, “lumulu”. Mentre il popolo siciliano rimane assetato, abbandonato a se stesso. In soccorso c’è solo la rima: comu muli – restanu suli.

Ni stu munnu vili, Cristu jetta ancora vuci?

In questi versi trovo molta influenza con i versi di Primo Levi. I limiti della razionalità di certe perseveranti condizioni umane, lo scrivere per non dimenticare.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Se la domanda è rivolta per capire se continuerò con altre pubblicazioni, ti  rispondo con i versi di uno dei più caustici poeti racalmutesi, il Dottor Achille Vinci: Nenti era e nenti torna…

 

 

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