L’EVENTO Ieri la traslazione del corpo del giudice Rosario Livatino nella chiesa di Santa Chiara. L’arcivescovo Alessandro Damiano: “È un testimone del nostro tempo, figura che deve essere da esempio per tutti noi e per i giovani”. Il sindaco Vincenzo Corbo: “Una pagina storica per la nostra comunità”
Stamattina a Canicattì il sole illuminava le strade e i tetti delle case. La grande chiesa di santa Chiara, che si trova in una zona nuova della città, all’alba aveva le porte spalancate. Qui da ieri pomeriggio riposa il corpo di Rosario Livatino, il giudice ucciso il 21 settembre del 1990 in quella maledetta scarpata lungo la strada che da Canicattì porta ad Agrigento, beatificato da Papa Francesco il 9 maggio di quattro anni fa. E ieri, in una giornata di scirocco potente, Canicattì ha vissuto una giornata che certamente passerà alla storia non solo di questa città, ma della Sicilia intera.

Il corpo del beato Livatino è stato traslato in questa chiesa della parrocchia Santa Lucia con fervore di popolo, si direbbe in termini che richiamano cose che fanno pensare al passato, a riti antichi, ai libri di storia. E invece ieri qui è stata scritta una nuova pagina della gloriosa storia di questa città legata a figure che qui sono già considerati “santi” come il monaco Gioacchino La Lomia. E guardando i libri su Canicattì non è difficile immaginare, dopo aver vissuto la cerimonia di ieri, come doveva apparire la città quel 21 aprile del 1912 quando si svolse la traslazione della salma del tanto venerato padre Gioacchino. Case e palazzi storici sono quasi gli stessi di centotredici anni fa.
È il 15 marzo 2025. Un sabato sciroccoso. Arriviamo in anticipo al cimitero cittadino rispetto al programma ben curato dalla Curia arcivescovile di Agrigento e dal Comune che prevedeva l’inizio della cerimonia alle 14. Davanti la cappella della famiglia Livatino, dov’era sepolto il magistrato accanto agli amati genitori e ai nonni, inizia a raggrupparsi una piccola folla di sacerdoti, autorità varie della città e della provincia. Il sindaco Vincenzo Corbo si assicura che tutto sia al proprio posto. Venerdì notte addirittura è venuto al cimitero assicurandosi che il sigillo messo nel pomeriggio dall’arcivescovo di Agrigento Alessandro Damiano non era stato rimosso.
In questo camposanto riposano tanti che hanno conosciuto e amato Rosario Livatino. Passiamo dalla tomba del giudice Antonino Saetta e del figlio Stefano, uccisi dalla mafia nel settembre del 1988. Tutt’attorno cappelle gentilizie ottocentesche delle famiglie dell’alta borghesia canicattinese (dei Cucurullo, Adamo, Sanmartino, La Vecchia, La Lomia). Passiamo dalla cappella dov’è sepolto Giuseppe Serra, nato nel 1887 e morto nel 1973, esempio per il giudice Livatino.
Sotto questi cipressi riposano l’arciprete Vincenzo Restivo e Don Pietro Li Calzi, molto legati al giovane magistrato, molti suoi insegnanti alle elementari e al liceo, come la professoressa Ida Abate che scrisse, tra i primi, molte pagine dedicate alla vita di Rosario Livatino. Era stata lei ad accompagnare ad Agrigento gli anziani genitori di Livatino quel 9 maggio del ‘93 per incontrare Giovanni Paolo II. Quell’incontro ha aperto il cuore del papa polacco che poco dopo ha puntato il dito contro i mafiosi nella Valle dei Templi.
La folla davanti la cappella Livatino è tanta. Si prega. L’arcivescovo Alessandro Damiano e il sindaco Corbo, assieme ai componenti del Tribunale ecclesiastico, aprono la porticina della cappella. Alle 14:50 l’addetto responsabile del cimitero, il racalmutese Carmelo Alaimo, toglie la lastra di marmo bianco. La bara è integra. Commozione negli occhi dei tanti presenti – il prefetto di Agrigento, il questore, il comandante provinciale dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, sacerdoti e seminaristi, amici e cugini di Livatino come il professor Salvatore Insenga, amministratori di Canicattì, deputati regionali, sindaci, componenti dell’associazione “Amici del Giudice Livatino”, giornalisti, qualche curioso.
Parte così il corteo in macchina dal cimitero per giungere, intorno alle 16, nel cuore della città, davanti al municipio. Nel tragitto tanti sono sul ciglio della strada. Un anziano si è fatto accompagnare con la sedia a rotelle, le donne hanno steso lenzuola bianche ai balconi. Una giovane coppia si bacia mentre passa il feretro. Molti sono rumeni, una grossa comunità da anni si è integrata in questa parte della città che dal cimitero porta alla chiesa di San Diego. Si inizia a vedere la folla: giovani, anziani, famiglie. Gli scout e i ragazzi dell’Azione cattolica e di tanti altri gruppi venuti anche da fuori creano un cordone umano attorno al feretro coperto con un drappo rosso e rose rosse. La comunità dei fedeli applaude.
Trentacinque anni dopo i funerali del giudice (era il 22 settembre del ’90), davanti a quella stessa chiesa di San Diego, nuove generazioni di cittadini salutano un giudice che conosceva bene il fenomeno mafioso e sapeva dei legami tra mafia e massoneria e che con grande anticipo aveva individuato quel che poi sarebbe diventata la tangentopoli siciliana. E forse morì per questo a quasi trentott’anni, giovanissimo, e non solo per il suo essere giudice, ma perché al Dottor Livatino, come veniva chiamato qui, non si doveva chiedere nulla, nessuna raccomandazione: uomo integerrimo che non si piegava al malaffare, con cui non si poteva e doveva negoziare (anche a me una volta monsignor Restivo, quasi centenario, raccontò che gli aveva chiesto un piccolo favore e lui rispose, categorico: “Padre, lei quando confessa raccomanda qualcuno?“).

Emozionante il tragitto sul corso principale di Canicattì. Davanti la casa dove visse il giudice – da anni aperta al pubblico e ben curata dall’associazione “Casa Giudice Livatino” guidata da Claudia Vecchio – un piccolo momento di preghiera e la scoperta della targa in marmo collocata proprio accanto alla porta d’ingresso di quel che era l’isola felice e luogo di pace domestica di Rosario Livatino: tra queste stanze rimaste intatte è cresciuto protetto dall’amore dei genitori, ora luogo sacro meta di turisti, fedeli e tanti studenti provenienti da ogni parte d’Italia e del mondo.
I tre balconi che danno sul corso sono spalancati. Due bambine lanciano petali di fiori, all’ingresso un tappeto di rose e altri fiori colorati. In un angolo, accompagnato dal nipote, visibilmente commosso, il professor Gaetano Augello, storico di Canicattì, docente di Italiano di Livatino nell’anno scolastico 1968/69 al liceo “Foscolo”, autore della relazione storica per il processo di canonizzazione di cui si occupò, tra gli altri, anche Don Giuseppe Livatino naturalmente presente oggi e anche lui visibilmente emozionato. Era l’autunno del 2018 quando l’allora arcivescovo Francesco Montenegro chiuse la fase diocesana del processo di beatificazione e canonizzazione del servo di Dio canicattinese.
Al piano superiore di questa casa, come si sa, abitava un boss di Cosa nostra. “E’ una terra strana la Sicilia – disse una volta la mamma di Livatino, la signora Rosaria Corbo – tutto è mischiato, confuso“. E probabilmente è ancora così. Mischiati nella folla forse ci sono anche quelli che non hanno condiviso questa beatificazione, quelli che non hanno condiviso e non condividono la traslazione del corpo dalla cappella del cimitero, e anche quelli che non hanno condiviso e non condividono ancora le scelte di legalità e giustizia fatte in vita da Rosario Angelo Livatino.
Alle 17:20 suonano le campane di Santa Chiara. Arriva il corteo. Il parroco Don Giuseppe Maniscalco si preoccupa per fare entrare più gente possibile nella chiesa dove da oggi sarà venerato il beato canicattinese: “È una parrocchia molto viva e palpitante, frequentata dalle giovani famiglie che vivono in questa zona di espansione della città, abbiamo 1400 posti a sedere, pazienza se molti restano fuori. Oggi è una gioia per tutti noi”.
Non di pochi, ma di tanti è il titolo di un libro pubblicato nel 2012 da Sciascia editore che raccoglie le riflessioni intorno alla giustizia di Livatino che aveva ben presente che solo il concorso di tutti avrebbe potuto migliorare e qualificare la nostra democrazia e l’amministrazione della giustizia. Da questa sua concezione le parole da lui stesso pronunciate, “Non di pochi, ma di tanti”, intendendo che alla giustizia si arriva non solo dalla compilazione delle leggi calate dall’alto, ma da un percorso culturale collettivo. Non per pochi, ma per tanti che da oggi potranno condividere anche un momento di silenzio davanti a quel che resta del giudice beato martire in odio alla fede che qui riposerà in un angolo della basilica dove sarà collocato, probabilmente il prossimo 9 maggio, il monumento che accoglierà il suo corpo. E da qui i canicattinesi inizieranno a scrivere una nuova pagina della storia civile e religiosa di questa terra e della vita di un uomo che, al di là del fatto di essere credenti o meno, rappresenta certamente un esempio di onestà e limpidezza e perciò tra i migliori esempi e testimoni del nostro tempo.
GUARDA LE FOTO di Salvatore Picone
LEGGI ANCHE