Il racconto della domenica
Quel sabato pomeriggio ci ritrovammo in campagna con alcuni parenti. Si avvertiva già il caldo e l’allergia non mi dava tregua, ma volli lo stesso poter assaporare il primo scampolo estivo, non fosse altro che per iniziare a prendere una certa confidenza con l’idea che la bella stagione e le vacanze fossero finalmente alle porte. La casa rurale dove ci trovavamo era appoggiata su un morbido pendio dal quale si dominava la vallata a oriente di Cometa famosa per le sue nebbie invernali, il manto stradale a volte pericolosamente ghiacciato e le sue temperature, certamente non proprio da isola del sole. Mentre sotto il forno ardeva una strana legna aromatica, forse vecchia di anni, tutto ciò che all’interno del fuligginoso cubo di ferro stava cuocendo sprigionava profumi che si univano alle inarrivabili essenze che solo la natura riesce a diffondere nei pomeriggi di primavera. Seduto all’ombra o in piedi nello spiazzo ricavato tra la casa e il terreno circostante ordinatamente coltivato, c’era chi chiacchierava, chi accennava ad antiche storie di uomini protagonisti di un lontano passato, chi con una vecchia chitarra tentava d’indovinare quel giro di do con cui poter accompagnare le canzoni cantate sempre in quelle occasioni e chi, come me, azzardava qualche palleggio con una racchetta da tennis in uno spazio su cui non si poteva neanche allungare una sedia sdraio.
A ripensarci adesso, quelli erano tempi in cui noi ragazzi ci accontentavamo di situazioni che oggi potrebbero far sorridere. Ma tant’è, ci si divertiva e tanto ci bastava. Messa in un angolo e con l’espressione scura in volto ricordo una mia cugina preoccupata per il suo ormai prossimo esame di maturità. Parlava dei suoi timori per gli scritti ma soprattutto per quella che più di tutte le toglieva il sonno la notte, la prova orale. Io percepivo distrattamente le sue parole, concentrato com’ero tra una battuta, veloci palleggi e infinite discussioni sulla palla dentro o fuori, manco fossimo sul cemento degli Open australiani. Più di me invece sembrava interessato a quella discussione il mio avversario, anche lui in procinto di un esame ma decisamente meno preoccupato, com’è giusto che sia a quattordici anni. Ci guardavamo e si sorrideva per quei timori che non capivamo neanche, troppo impegnati a batterci per spuntarla sul set finale prima del buio serale.
Non ricordo come finì quella partita, seguita da un’abbuffata niente male, tra fumanti pizze farcite, caponatine varie e quel vino rosso casareccio che non può mai mancare in occasioni del genere. Ma una cosa la ricordo e molto bene, tanto da aver marchiato indelebilmente la mia memoria, quasi un presagio. All’improvviso mi resi conto che il piacevole tepore dell’aria aveva lasciato spazio a un freddo vento che improvvisamente ci obbligò a rientrare nella piccola casa e a traslocare là dentro tutta la tavola così com’era stata apparecchiata. Addirittura scorgemmo dei lampi che illuminarono l’ampia vallata che avevamo di fronte e che stava lentamente scivolando nelle tenebre. Quei fulmini anticiparono alcuni sonori tuoni e non mancò all’appello neanche qualche goccia di pioggia. Tutto sembrava mutato, la temperatura dell’aria, l’atmosfera e il nostro umore, ottimo fino a poco prima. Ovviamente, infreddoliti e impreparati a tale veloce cambiamento fummo costretti a velocizzare i tempi di una cena che avrebbe meritato molta più dedizione e decidemmo di rientrare tutti a casa, delusi da come eravamo stati costretti a cambiare così bruscamente i nostri programmi. Avvenne tutto talmente rapidamente che ci ritrovammo a casa in un orario reso ancora più strano dal fatto che era un sabato sera.
La prima cosa che feci fu quella di accendere il televisore, tanto ormai non avrei fatto più in tempo a organizzarmi per uscire. Fu un attimo e fu scandito dalle immagini trasmesse in contemporanea da tre canali nazionali. Le riprese mostravano un tratto di autostrada completamente capovolto, si vedeva solo la terra, non rimaneva niente dell’asfalto su cui fino a pochi minuti prima avevano viaggiato migliaia di automobili, esattamente uguali a quelle che tutti noi usiamo ogni giorno. Dissolto nel nulla, come se non ci fosse mai stato. Alcune macchine erano sotto cumuli di terra, una, di colore bianco, era stata letteralmente troncata in due, un’altra di cui rimanevano solamente brandelli fu ritrovata a quasi trecento metri di distanza e se non fosse stata fumante sarebbe stata probabilmente scambiata per una di quelle tante carcasse di auto abbandonate di cui le nostre campagne conservano i resti. Un via vai di poliziotti, carabinieri, elicotteri e ambulanze.
Una scena di guerra, perché di questo si iniziò a parlare. In Italia era iniziata una guerra e ce lo avevano comunicato nel peggiore dei modi, quello che non può essere impedito da chi sconosce cosa stia succedendo. Poi nei commenti degli attoniti cronisti percepisco esattamente cos’era avvenuto. Allora avevo quattordici anni ma anche a quell’età questi sono eventi che segnano nel profondo, più di quanto avessero fatto i cinquecento chili di tritolo che fecero sparire duecento metri delle due corsie di quel tratto autostradale. E il giorno dopo tra i titoli delle prime pagine dei giornali ve ne fu soprattutto uno in particolare che con due sole parole fendeva un durissimo colpo alle nostre speranze.
Poi venne una estiva domenica. La compagnia era più o meno la stessa, c’era il cugino che aveva superato quel suo primo esame ma mancava la cugina che aveva appena terminato la sua carriera liceale. Quel giorno si festeggiava un compleanno. In molti andammo in spiaggia e stranamente sia di mattina che di pomeriggio, poiché la temperatura era davvero torrida ed eravamo tutti smaniosi di sguazzare nelle tiepide acque del nostro bel mare africano. Ricordo che il lido quella domenica era particolarmente gremito, variopinto come solo in una domenica d’estate e generoso di odori e suoni. Noleggiammo pure un pedalò, convinti dal fatto che le correnti marine, che in genere battono implacabili quel piccolo litorale compreso tra due promontori d’arenaria bianca, quel giorno avessero deciso di dare una strana tregua, come non se ne vedeva da settimane.
E poi la limpidezza di quel mare, che dall’alto di un suggestivo doppio scoglio ci permetteva di vedere chiaramente il fondo anche a parecchi metri di profondità, era un invito che non si poteva rifiutare. Dopo qualche ora a mollo decidemmo di rientrare a casa. Sapevamo che la giornata sarebbe stata ancora lunga perché per i festeggiamenti ci si era affidati alla frescura del vespro. E forse in serata sarei stato impegnato in un altro infinito incontro di quel nostro tennis casalingo, non lo sapevo ancora. Risalimmo la bollente striscia di cemento che tra le ville dei vacanzieri mette il mare alle spalle degli assolati turisti e ci avviammo a fatica lungo la salita che ci separava da una doccia rinfrescante. Nulla, assolutamente niente stavolta poteva far presagire ciò che in quegli stessi momenti, in un altrove che ci sembrò veramente un altro mondo, stava succedendo.
Finalmente varcammo la soglia di casa e fummo piacevolmente investiti dall’ombra e da una lieve frescura che ci permise di riprendere fiato. La tavola stava per essere imbandita ma notai che era stata lasciata a metà. Ritrovammo in piedi e increduli i pochi che non erano scesi in spiaggia, tutti davanti al televisore. Sembrava quasi che sulle espressioni dei loro visi si specchiasse ciò che in tivù stavano passando in quel momento. Il volume era alto e la scena trasmessa pietrificante. Su tutte le reti nazionali le stesse immagini, unificate. La porta-finestra che dava sul balcone era completamente spalancata per permettere di creare una lieve brezza, esile refrigerio in una giornata come quella, e mi accorsi che dalle abitazioni vicine, creando una eco inedita per una zona marina, si udivano distintamente le stesse voci e gli stessi suoni che nell’appartamento in cui ci trovavamo stavano raccontando in diretta cosa stesse succedendo.
Le macerie erano quasi uguali alla prima volta, le auto squarciate allo stesso modo e gli allarmi terribilmente squillanti. E ancora elicotteri e ambulanze. Mi colpirono molte inquadrature che dall’alto mostravano la scena di totale distruzione di quel tratto di via urbana, così simile a quelle che tutti noi quotidianamente percorriamo e che quel giorno fu il baricentro di un cieco orrore. I pianoterra dei palazzi erano stati anneriti dallo scoppio e molte finestre erano state frantumate da ciò che all’inizio sembrò essere stata una scossa di terremoto. Ma quel giorno, anche se la terra tremò, non ci fu nessun terremoto. E poi gente, tantissima gente che gremiva l’area già pochi attimi dopo lo scempio. Dalle immagini televisive si udivano le sirene assordanti in sottofondo e il parlare confuso dei cronisti faceva intendere che avevano ancora davanti ai loro occhi la scena indelebile di quell’altro ignobile cratere.
Cinquantasette giorni dopo era successo un’altra volta. E l’indomani non potei non associare ai titoli delle prime pagine dei quotidiani che andai a leggere quell’altro titolo scritto a caratteri cubitali pesanti come macigni.
Mi colpì il clima nel quale si era piombati. Lo si percepiva ovunque e il fatto d’essere poco più che adolescenti non ci allontanava dai pensieri di sgomento e incredulità che ci avevano bruscamente svegliati dal nostro torpore estivo. Quella fu la stagione di un anno che molti ricordano ma che troppi vorrebbero poter dimenticare. Le voragini che quelle due bombe aprirono nelle nostre coscienze inghiottirono tante vite e spezzarono i sogni e le speranze di uomini e donne che però oggi, in parte, non ricordiamo più. Quel sabato moriva Giovanni, ucciso insieme a Francesca, Rocco, Antonio e Vito. E quella domenica moriva Paolo, ucciso insieme ad Agostino, Emanuela, Vincenzo, Walter e Claudio.
Sono passati tanti anni ma a noi è rimasta per sempre l’eredità di due uomini e di chi li ha voluti proteggere fino alla fine.
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Il racconto è contenuto nel volume Comete di Antonio Fragapane, edito dalla Medinova Edizioni nel 2016. Si pubblica su gentile concessione dell’Editore.