La memoria ci aiuta a non dimenticare mai chi siamo stati e chi saremo
Una delle suggestioni che da sempre mi appassionano riguarda lo scorrere del tempo: parlo della trasformazione umana, sia in ordine a quello che si vede (la materia) sia riguardo a ciò che sfugge agli occhi (i sentimenti). Sul rapporto spazio-tempo cinema e letteratura hanno giocato moltissimo, ispirando storie ora di impronta filosofica, ora di stampo fantascientifico, con espressioni narrative e visionarie talvolta affascinanti, riuscendo talvolta, attraverso l’ausilio di effetti speciali mirabolanti, a suscitare emozioni irripetibili. Espressioni visive incentrate su fatti chiaramente di impossibile concretizzazione (per esempio i viaggi nel tempo) ma, comunque, utili a raccontare l’uomo attraverso la rappresentazione di metafore dell’esistenza dal contenuto in qualche caso assai più profondo di una narrazione di stampo realistico.
Fateci caso: osservando una foto in bianco e nero, sembra che i soggetti immortalati parlino ai discendenti che li guardano tenendo un’istantanea tra le dita. Discendenti che possono essere anche loro stessi più grandi. O più vecchi. Molti ricorderanno, ne “L’attimo fuggente” di Peter Weir, la scena in cui il professor John Keating, con gli occhi e il volto del compianto Robin Williams, invita i suoi studenti ad avvicinarsi alle foto dei vecchi annuari del college per percepire, disperso negli anni, ciò che rimane dell’invocazione dei loro predecessori fatta sotto forma di sussurro: “Cogliete l’attimo ragazzi, rendete straordinaria la vostra vita”. Carpe Diem
Si può forse negare come una semplice fotografia sia una sorta di suggello dell’immortalità? Ne ha bisogno perfino una tomba, almeno nella tradizione cristiana, come sorta di contraltare della più inaccettabile delle realtà. Una fotografia, un filmato, rappresentano così il tentativo dell’uomo di contrapporsi all’ineludibilità. Ma quando ci guardiamo in una istantanea dovremmo renderci conto che quelli nella foto non siamo noi. Non più, almeno. Nel preciso istante in cui il flash ci ha accecati eravamo noi. Ma già dopo un secondo non lo eravamo più. Eravamo altro, vissuto ma abbandonato nelle viscere di un passato che presto sarebbe diventato remoto.
Quando ci imbattiamo non in una foto che non vedevamo da anni, ma in un reperto che ci ritrae ma che non avevamo mai visto prima (ad esempio uno scatto durante una festa di ragazzi, fatto da qualcuno che magari neanche conoscevamo) proviamo sensazioni molto forti. Quando visioniamo le immagini in Super 8 di noi bambini, dell’epoca che fisiologicamente si cancella dalla nostra memoria dopo i 5 anni, guardiamo ammaliati, alla ricerca di quel “noi” di cui abbiamo perduto il controllo, di quella tenerezza della carezza materna che giocoforza avrebbe poi preso altre forme.
Cercatevi, dunque. Fatelo nelle foto che pensate qualche amico, una vecchia zia, possano avere nei loro cassetti o armadi. Fotografate le foto o duplicate i filmati che vi ritraggono, oltre le collezioni familiari (tutti noi abbiamo avuto delle istantanee che ritraggono il cugino del cuore o l’amico dell’amico). Perché la memoria è la cosa più importante che abbiamo, e non è giusto assegnarle questa importanza quando saremo diventati anziani. Perché vivere di ricordi può essere l’essenza più deteriore di chi indugia nel nostalgismo, ma la memoria ci aiuta a non dimenticare mai chi siamo stati e chi saremo.