LETTERATURA Un testo raro dello scrittore, pubblicato nel 1960 su “Sicilia” di Flaccovio, anticipa le riflessioni sulle feste religiose in Sicilia pubblicate nel 1965 nel libro di fotografie di Ferdinando Scianna. La collezione della rivista conservata a Racalmuto nella biblioteca di “Casa Sciascia”
Cinque anni prima della pubblicazione di Feste religiose in Sicilia, Leonardo Sciascia scrive della Settimana Santa a Caltanissetta su “Sicilia”, la bella e prestigiosa rivista edita da Flaccovio. Siamo nel 1960 e a Palermo l’editore Salvatore Fausto Flaccovio, sin dal ’53, aveva riunito attorno a quelle pagine il meglio della letteratura e del giornalismo, della fotografia e delle arti figurative che c’era allora non solo in Sicilia, ma in tutt’Europa. Moderna e dinamica, aperta alla contemporaneità, “Sicilia” – rivista ufficiale dell’Assessorato Turismo e Spettacolo della Regione Siciliana – si presentava ai lettori come un prodotto raffinato ed elegante, e soprattutto con contenuti di spessore e un repertorio eccezionale della vita, delle tradizioni e della Storia del popolo siciliano. Sciascia non era un semplice collaboratore, come non lo era il pittore Bruno Caruso per ciò che riguardava l’impostazione grafica.
La raccolta di “Sicilia” salta fuori dalla collezione, come tante ce ne saranno sparse per biblioteche pubbliche e private, di “Casa Sciascia”. Dalle copertine emerge un’immagine solare dell’isola, racchiusa nei colori di paesaggi, maioliche, pitture, volti.
Il numero 26 del giungo 1960 ospita diverse riflessioni su alcune feste religiose siciliane, come le candelore di Sant’Agata e i riti della Settimana Santa di Caltanissetta. Nel ’60, quando viene pubblicato l’articolo, Sciascia era tornato a vivere da poco nella “piccola Atene” assieme alla moglie, alle figlie e alla zia che a casa chiamavano “Nica”. E a Caltanissetta, naturalmente, lo scrittore non stava fermo. Scriveva, dirigeva “Galleria” – la rivista dell’amico editore Salvatore Sciascia – partecipava in qualche modo alla vita sociale, culturale e anche politica della città. E da acuto e sensibile osservatore qual era, non poteva non scrivere dei riti antichi della Pasqua nissena: «I mastri delle arti vestono rigorosamente di nero, come per un recente lutto che però consente indimenticata compiacenza….”.
Rispetto al saggio sulle Feste religiose in Sicilia, qui Leonardo Sciascia è più preciso nel descrivere questa “festa” religiosa: «…bande musicali arrivano da ogni parte, i più valenti complessi bandistici non solo della Sicilia, ma del Meridione; da quattordici a sedici complessi, e ciascuno arrivando percorre le vie principali, suonando sgargianti marce. La città è festosa, vibra di gioia nel vibrare… È la festa siciliana; anzi: la “fiesta”, quella sorta di esplosione esistenziale che sono le feste nei paesi della Sicilia e della Spagna”. Ma nel volgere del giorno, quando il cielo livido sembra afflosciarsi sulle cose… il clamore si estenua, si incupisce il suono delle bande; e la gente si muove per la piazza come si trovasse a far visita di lutto: fitta e silenziosa, in un moto di vortice intorno alle “bare” dei Sacri Misteri…». C’è già, nel testo, qualche richiamo alla festa religiosa che è «esplosione esistenziale». Cinque anni dopo, infatti, nel libro di fotografie di Ferdinando Scianna, scriverà proprio di «esplosione dell’es collettivo, in un paese dove la collettività esiste soltanto a livello dell’es. Poiché è soltanto nella festa – scrive – che il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo, che è poi la condizione del suo vigile e doloroso super-io per ritrovarsi parte di un ceto, di una classe, di una città».
Tornando all’articolo sulla Settimana Santa di Caltanissetta, corredato dalle fotografie di Alfredo Camisa e dal disegno di Santuzza Calì, Sciascia descrive poi le vare che sfilano la sera del giovedì santo nel cuore della città: «Le “bare” sono sedici; e su ciascuna è rappresentata, in gruppi statuari di grandezza naturale, un momento della Passione: la Cena, l’Orazione nell’orto, la Caduta, il Sinedrio, la Flagellazione, l’Ecce Homo, la Condanna di Pilato, la Prima caduta, il Cireneo, la Veronica, il Crocefisso, la Deposizione, la Pietà, la Traslazione, l’Urna, l’Addolorata… Ciascuna “bara” appartiene ad una determinata categoria di lavoratori; tranne l’Urna, che appartiene al clero e ai “civili”».
In questa “cronachetta” della Pasqua di Caltanissetta, lo scrittore di Racalmuto cita gli studi del 1909 di Michele Alesso, ma ci colpisce quel che racconta di Antonio Baldini, lo scrittore romano che negli anni Cinquanta ha assistito ad alcune processioni della Passione di Cristo in Sicilia, comprese quelle di Caltanissetta. Un passo riportato anche da Matteo Collura nel libro Sicilia sconosciuta. Baldini, allontanandosi dalla processione e immergendosi nel vuoto e nel buio di strade e cortili della città, viene richiamato dalle nenie dei ladanti, di coloro, cioè, che intonano i tradizionali canti e lamenti: Diu pi la nostra morti discinnìu,/Calà di ‘n celu ‘n terra e s’incarnàu. «Nel grido dell’ultimo verso – conclude Sciascia – la banda riattaca, poi in una nuova pausa altra strofa viene lanciata… Giuda, ch’era stinatu, si dannàu/A li profunni abissi si nni jiu… E così per tutta la durata della processione. “Ed ebbi tutto vivo e presente” – conclude Baldini – “il senso delle grandi parole di Pascal: Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo. Fino allora non bisognerà più dormire”».